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Articolo Pubblicato il 9 Novembre, 2019

Bullismo, sanzioni disciplinari e la perdita dell’etica

Bullismo, sanzioni disciplinari e la perdita dell’etica

La sez. III Milano del T.A.R. Lombardia, con la sentenza 4 novembre 2019 n. 2300, interviene nel sanzionare la condotta irriguardosa nei confronti di un alunno tenuta da un compagno di scuola, segnando inevitabilmente una chiara indicazione precettiva nel censurare quelle manifestazioni di “violenza verbale” (c.d. bullismo) che operano all’interno di ambienti che dovrebbero “educare” la prole.

La sentenza è di vivo interesse giacché indica “la via” di condotta nei rapporti tra alunni ma estensibile, per ovvie ragioni di etica pubblica, nelle relazioni umane, ovvero nei rapporti tra “colleghi di lavoro” (sia con il pubblico) che devono essere improntati al rispetto reciproco e ai «doveri minimi di diligenza, lealtà, imparzialità e buona condotta che i pubblici dipendenti sono tenuti ad osservare», ex art. 1 del D.P.R. n. 62/2013.

Un dovere di comportamento in servizio (sarebbe più corretto di mera educazione) che esige – sotto il profilo negoziale – il rispetto costante della dignità della persona, censurando tutte quelle forme generative di rimprovero, umiliazione, diverbio che vengono rivolte agli altri, sia equiparati che superiori, specie ove poste ad un proprio subordinato, in una posizione di debolezza rispetto al datore di lavoro (dirigente o superiore gerarchico), con una evidente lesione all’integrità fisica e morale del soggetto passivo[1].

Nello specifico, un Dirigente Scolastico di un Istituto professionale comunicava ai genitori di un alunno la sanzione disciplinare a carico di quest’ultimo, consistente nella sospensione di alcuni giorni dall’attività scolastica «per avere usato frasi offensive nei confronti di un compagno di scuola».

Sanzione e atti del procedimento disciplinare che venivano impugnati, tra l’altro, per:

  • violazione del diritto di difesa e di partecipazione al procedimento, rilevando che la contestazione di addebito/comunicazione di avvio del procedimento sarebbe stata generica non specificando né i fatti né le circostanze di tempo e di luogo;
  • violazione del principio di motivazione/istruttoria, di cui all’art. 3 della Legge n. 241/90 non avendo adeguatamente valutata la vicenda in tutte le sue componenti, con una mancanza di proporzionalità e di gradualità della sanzione.

Il Tribunale prima di entrare nel merito, analizza i fatti sulla base degli elementi documentali a disposizione (le prove): «il ricorrente è uscito piangendo dalla classe, e si è recato al bagno. Al rientro, a fronte della richiesta dell’insegnante di spiegare i motivi dell’accaduto ha risposto “Se lo faccia dire da loro”, indicando i compagni di classe in generale, che tuttavia non sono intervenuti. L’alunno allora ha dichiarato di essere stanco degli insulti ricevuti da altri due compagni di classe».

Segue la convocazione del Consiglio di Classe in seduta disciplinare, con la presenza dei rappresentanti dei genitori e degli alunni “per esaminare e valutare il comportamento” dei tre studenti, pure convocati insieme ai rispettivi genitori, dove si appura, dalla lettura del relativo verbale, che uno dei tre studenti coinvolti riceveva a sua volta insulti e parole offensive da parte del ricorrente, che avrebbe anche tentato di farlo cadere; mentre, l’altro studente, sottolineava il continuo atteggiamento di istigazione da parte del ricorrente.

Viene rilevato che la “sanzione disciplinare” del Piano dell’Offerta Formativa dell’Istituto scolastico prevede, tra i comportamenti disciplinarmente rilevanti, la mancanza di rispetto per le persone, declinata in varie fattispecie concrete, tra le quali l’utilizzo di parole offensive nei confronti dei compagni, cui corrisponde, quale sanzione, la sospensione dalle lezioni con possibile svolgimento di attività socialmente utili.

In definitiva, si censura il comportamento tenuto e la sanzione si presenta come momento di riflessione dello studente sulla propria condotta offensiva («I provvedimenti disciplinari hanno finalità educativa e tendono al rafforzamento del senso di responsabilità ed al ripristino di rapporti corretti all’interno della comunità scolastica, nonchè al recupero dello studente attraverso attività di natura sociale, culturale ed in generale a vantaggio della comunità scolastica», comma 2 dell’art. 4 del D.P.R. n. 249/1998)[2] che in contradittorio non viene smentita: i fatti contestati risultano intellegibili, rilevanti sotto il profilo disciplinare, ai sensi della disciplina di cui all’art. 4 «Disciplina» del D.P.R. 24 giugno 1998, n. 249, «Regolamento recante lo statuto delle studentesse e degli studenti della scuola secondaria», donde si passa al merito.

La sanzione applicata risulta coerente con la norma citata, annota il Tribunale, ruotando intorno ai principi ineludibili della personalità della responsabilità disciplinare e del diritto di difesa (comma 3), di proporzionalità della sanzione (comma 4) e della sua finalità educativa e volta al rafforzamento del senso di responsabilità ed al ripristino di rapporti corretti all’interno della comunità scolastica (comma 2), con il conseguente rigetto del ricorso.

La sanzione è stata «attuata con lo svolgimento di attività socialmente utili, presso una Onlus convenzionata con la Scuola, ed è stata rispettato il principio di proporzionalità, tenuto conto della maggiore gravità della sanzione comminata agli altri due studenti».

La questione affrontata pone in luce un fenomeno non positivo sulle relazioni tra compagni di scuola, e sul clima che può insistere all’interno di un determinato ambito, aspetti che non possono essere sottovalutati ma che richiedono un intervento immediato, quale è emerso in sede di giudizio avanti al T.A.R. nella sua ritenuta adeguatezza e proporzionalità della sanzione, anche con riferimento a quelle inflette agli altri alunni coinvolti.

Un ambiente scolastico, ovvero un ambiente istituzionale di lavoro, non può tollerare condotte denigratorie rivolte a colleghi (o terzi) mediante frasi offensive o ingiuriose (anche episodiche), configurandosi di rilievo disciplinare tale comportamento che può ben costituire una “molestia o un atto di violenza fisica o morale”, dovendo intervenire efficacemente per ristabilire il benessere organizzativo[3].

La vicenda farebbe, quindi, riflettere per la sua attualità, specie quando viene posta all’attenzione della “Giustizia”, richiedendo uno sforzo maggiore sul piano della tolleranza e del rispetto degli altri, regole minimali del vivere civile (direbbero altri dai cuori semplici).

Astraendo nel diritto vivente, nel diritto delle grandi corporate dei beni immateriali, tutto questo può diventare ingovernabile nell’era digitale, dove ognuno – entrando in rete – può diventare un protagonista anonimo, perdendo i rapporti personali per le identità virtuali, mutando la mente a scapito dell’etica e della sua umanità.

[1] Cass., 12 marzo 2001, n. 10090.

[2] Cfr. T.A.R. Abruzzo L’Aquila, sez. I, 10 novembre 2012, n. 551.

[3] Cass. Civ., sez. Lav., 17 ottobre 2018, n. 26013.