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Articolo Pubblicato il 16 Agosto, 2019

Flessibilità nell’orario di servizio degli avvocati di enti pubblici

Flessibilità nell’orario di servizio degli avvocati di enti pubblici

La sez. III quater Roma del T.A.R. Lazio, con la sentenza 14 giugno 2019 n. 7713, interviene per affermare la flessibilità di orario degli avvocati (pubblici), in relazione alla specifica attività processuale.

Nel caso di specie, il ricorso (promosso da avvocati o comunque professionisti in servizio presso una P.A.) verte sull’annullamento dell’aggiornamento del Codice disciplinare per il personale professionista con rapporto di lavoro a tempo indeterminato e a tempo determinato, per effetto delle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 150/2009 (c.d. decreto Brunetta).

Si è trattato di una modifica unilateralmente di aggiornamento che ha inciso su determinati obblighi di servizio come «l’orario di presenza in ufficio»:

  • lamentando la violazione dei principi stabiliti, in materia di pubblico impiego, ex D.Lgs. n. 165 del 2001 (c.d. TUPI);
  • ribadendo che gli Avvocati dipendenti da Enti Pubblici non potrebbero essere costretti ad un’osservanza rigida dell’orario di lavoro alla stessa stregua degli altri dipendenti.

Il giudice di prime cure, dopo aver ribadito la propria competenza, accoglie il ricorso annullando il provvedimento impugnato sulla base delle seguenti osservazioni:

  • la materia delle sanzioni disciplinari rientra pleno iure nel Titolo IV del suddetto Testo Unico, ante le modifiche del c.d. decreto Brunetta, ex 40 del TUPI (le sanzioni disciplinari erano interamente demandate alla contrattazione collettiva);
  • con l’entrata in vigore del richiamato c.d. decreto Brunetta le materie relative alle sanzioni disciplinari rientrano nella contrattazione collettiva negli esclusivi limiti previsti dalle norme di legge, ex 40, comma 1, ultimo periodo, del Testo Unico Pubblico Impiego (la disciplina è prevista direttamente dal cit. TUPI artt. 55 ss., e per la parte non coperta dalla legislazione e nei limiti da questa previsti dalla contrattazione collettiva).

In relazione a tale quadro normativo, la disciplina è appannaggio in via principale della legislazione primaria oppure, in via subordinata, della contrattazione collettiva: tertium non datur, con l’inevitabile precipitato che nessuno spazio può essere consentito per determinazioni unilaterali ed autoritative della P.A. in qualità di datore di lavoro.

A sostenere tale pronunciamento gli orientamenti della giurisprudenza:

  • dove si è escluso “in radice” il potere del datore di lavoro pubblico di introdurre deroghe, anche a favore dei dipendenti, all’assetto definito in sede di contrattazione collettiva;
  • uno dei principi cardine della riforma consistita nella “contrattualizzazione” del rapporto di lavoro pubblico, espresso in numerose disposizioni del suo “statuto” del D.Lgs. n. 165/2001, dispone che «i rapporti di lavoro sono regolati esclusivamente dai contratti collettivi e dalle leggi sul rapporto di lavoro privato»;
  • l’atto di deroga, anche “in melius“, alle disposizioni del contratto collettivo sarebbe affetto in ogni caso da nullità, sia quale atto negoziale, per violazione di norma imperativa, sia quale atto amministrativo, perché viziato da difetto assoluto di attribuzione, ai sensi dell’art. 21 septies della Legge n. 241 del 1990;
  • l’ordinamento esclude che la P.A. possa intervenire con atti autoritativi nelle materie demandate alla contrattazione collettiva, oppure alla legge[1].

Chiarito che la fonte di riferimento non può che rinvenirsi all’interno della contrattazione collettiva senza possibilità di atti autoritativi o unilaterali, in spregio alle regole della negoziazione, il Tribunale conclude sulla specificità dell’attività e dell’orario di servizio degli avvocati.

La stabilità giuridica, in tema di obblighi flessibili di orario in capo ai singoli professionisti degli enti pubblici, si estende – a maggior ragione – nell’attività degli avvocati, anche se pubblici dipendenti, i quali sono soggetti a scadenze e a ritmi di lavoro che sfuggono alla potestà organizzativa delle Amministrazioni, dipendendo dalle esigenze dei processi in corso nei quali essi sono impegnati, incompatibile con l’osservanza prestabilita e rigida di un orario cristallizzato.

Infatti, l’esercizio dell’attività di avvocato pubblico comporta operazioni materiali (precipuamente procuratorie) ed intellettuali (esemplificatamente studio della controversia e predisposizione delle difese) che richiedono il rispetto di tempi delle scadenze processuali e proiettate all’esterno, direttamente ascrivibili alla responsabilità del professionista che le svolge con un’esigenza non ritraibile di una certa autonomia di orario di servizio, funzionale alle incombenze sopra espresse.

Ne deriva, annota il giudice, che il principio da tenere fermo è che «gli Avvocati dipendenti da Enti Pubblici, nell’esercizio delle funzioni di rappresentanza e difesa giudiziale e stragiudiziale dell’Amministrazione, in attuazione del mandato in tal senso ricevuto, sono dei professionisti i quali non possono essere costretti ad un’osservanza rigida e rigorosa dell’orario di lavoro alla stessa stregua degli altri dipendenti, senza tenere conto della peculiarità dell’attività da loro svolta»[2].

In termini diversi, la prestazione lavorativa dello ius postulandi nell’interesse dell’Ente di appartenenza è strumentale ad assicurare gli esiti processuali, e i tempi non possono che correlarsi alla presenza in aula o alle esigenze di difesa, che spesso non collimano con le prestazioni che vengono richieste agli altri dipendenti, in ambito di organizzazione del lavoro: la fissazione delle udienze, ovvero, dell’attività dell’avvocato pubblico (il c.d. orario di servizio), può dipendere da fattori esterni che non rientrano nella disponibilità dello stesso avvocato.

Non va a tal proposito sottaciuto che la III sez. del Consiglio di Stato, con la sentenza 26 settembre 2018, n. 5538[3], diversamente ha ritenuto legittima la determinazione datoriale che impone agli avvocati dirigenti, iscritti all’elenco speciale, di marcare con il badge la presenza in ufficio (rilevamento automatico delle entrate e uscite, le missioni per conto dell’Ente alle udienze e connesse attività processuali, le motivazioni), pena l’adozione di misure disciplinari (ergo un orario di servizio prestabilito).

Si rilevò che la corretta applicazione di alcuni istituti contrattuali, aventi rilevanza sui costi del personale, incida sul controllo dell’accesso alla sede di servizio con riflessi sulla qualità e quantità della prestazione; cioè prestazione tipicamente intellettuale che dovrebbe necessariamente godere di quella particolare autonomia di pensiero e flessibilità organizzativa, per consentire l’esplicazione corretta e proficua dell’attività legale, troverebbe dei limiti leciti nella rigida predeterminazione di orario.

Nel caso prospettato dal Consiglio di Stato, nella sentenza n. 5538/2018, a nulla è valso il rilievo che l’esercizio dell’attività legale si caratterizza:

  • da autonomia ed indipendenza riconosciute dall’Ordinamento professionale agli avvocati degli enti pubblici (ex 23 «Avvocati degli enti pubblici» della Legge professionale n. 247 del 31 dicembre 2012, «Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense»);
  • la verifica dell’orario di servizio costituiva una “indebita ingerenza” nell’esercizio intrinseco della prestazione d’opera intellettuale, propria della professione forense;
  • l’eventuale verifica del rispetto degli obblighi lavorativi di diligenza e correttezza nei confronti della persona giuridica pubblica (datrice di lavoro) si attuavano in forme diverse, con la partecipazione attiva all’organizzazione amministrativa;
  • la peculiarità delle funzioni e delle mansioni esercitate ammettevano semmai un controllo differenziato, in relazione all’assenza di orari di lavoro prestabiliti e la maggiore autonomia nell’organizzazione dei tempi di lavoro.

Il controllo temporale della prestazione mediante marcatura oraria (in attesa dell’impronta digitale o biometrica, c.d. scanner oculare)[4] non risulterebbe un’intensa forma di verifica sulla prestazione lavorativa dell’avvocato pubblico tale da minarne l’esercizio, ed oggettivamente idonea ad intaccare il “nucleo essenziale” dei requisiti di indipendenza ed autonomia.

La sentenza n. 7713 del 14 giugno 2019, della sez. III quater Roma del T.A.R. Lazio, facendo forza sulla disciplina contrattuale, ha definito più di un principio nell’attività degli avvocati pubblici:

  • l’orario di servizio va negoziato;
  • vi sono margini di flessibilità rispetto agli altri dipendenti pubblici in relazione al mandato ricevuto di difesa della P.A., attività che presenta ex se una certa libertà, anche di orario.

Il pregio della sentenza, nella sua chiarezza espositiva, è quello di aver ribadito il ruolo elettivo dell’avvocato all’interno della P.A., con compiti che devono essere strutturati in autonomia, sia di pensiero che organizzativa, prestazioni professionali che non possono assimilarsi agli altri dipendenti, pur con responsabilità equiparabili, essendo la funzione collegata all’“Amministrazione della giustizia”, come parte necessaria e indispensabile per uno Stato di diritto e l’esercizio delle libertà.

[1] Cfr. Cass. Civ., sez. lav., 25 febbraio 2011, n. 4653; Cass. Civ., sez. Un., 14 ottobre 2009, n. 21744.

[2] Cfr., Tribunale Chieti, sez. lav., 12 luglio 2018, n. 250.

[3] Si rinvia a un personale scritto, In attesa delle impronte digitali gli avvocati timbrano ancora con il badge, LexItalia.it, 6 ottobre 2018, n. 10.

[4] Cfr. l’art. 2 “Misure per il contrasto all’assenteismo” della Legge 19 giugno 2019, n. 56 ove si stabilisce che «ai fini della verifica dell’osservanza dell’orario di lavoro, le amministrazioni pubbliche… introducono, nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente e della dotazione del fondo…, sistemi di verifica biometrica dell’identità e di videosorveglianza degli accessi, in sostituzione dei diversi sistemi di rilevazione automatica, attualmente in uso, nel rispetto dei princìpi di proporzionalità, non eccedenza e gradualità sanciti dall’articolo 5, paragrafo 1, lettera c), del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, e del principio di proporzionalità previsto dall’articolo 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea».