«Libero Pensatore» (è tempo di agire)
Articolo Pubblicato il 2 Settembre, 2014

Rapporto di pubblico impiego: il comando


Inquadramento normativo.

La nozione di comando consegnata dall’art.56 del T.U. degli impiegati civili dello Stato, di cui al D.P.R. n.3/1957, descrive il fenomeno per cui il pubblico impiegato, titolare di ruolo presso una pubblica amministrazione viene temporaneamente assegnato a prestare servizio presso altra amministrazione o altro ente pubblico, nell’interesse dell’amministrazione di destinazione.

L’assegnazione è a termine e va riconosciuta in relazione a due distinte condizioni non cumulabili: la prima per “esigenze di servizio”, la seconda “quando sia richiesta una speciale competenza”.

Da una esatta interpretazione semantica e sistematica del dettato normativo: “l’impiegato di ruolo può essere comandato a prestare servizio presso altra Amministrazione… disposto a tempo determinato e in via eccezionale”, se ne deduce che il  vede interessate le due amministrazioni e giammai il dipendente.

L’accordo avviene tra due Amministrazioni pubbliche, senza che assolutamente il dipendente esprima la propria volontà negoziale, neppure sotto forma di consenso adesione.

Quindi, nessun contatto qualificato si è instaurato tra dipendente e amministrazioni interessate, rimanendo l’accordo stipulato tra questi due ultimi soggetti, per cui non sono sorti vincoli giuridici di diritto ai sensi dell’art. 1321 del codice civile.

In tal senso, si esprime lapidariamente la Suprema Corte di legittimità quando afferma “ai fini della legittimità del comando o distacco non vi è necessità né di una previsione contrattuale che lo autorizzi né dell’assenso preventivo del lavoratore interessato” (Cass. Civ., sez. Lavoro, 7 novembre 2000, n. 14458).

Non si esclude che, per discrezionale forma partecipativa dell’Ente comandante, possa essere coinvolto l’interessato e, nelle more dell’adozione del provvedimento di comando, è possibile che l’amministrazione, titolare del rapporto, conceda l’immediata utilizzazione dell’impiegato presso l’amministrazione che ha richiesto il comando; tale scelta, come l’intero procedimento finale, rientra tra le valutazioni discrezionali dell’amministrazione in funzione della propria organizzazione interna e del proprio fabbisogno di personale.

Da ciò si ricava che il comando (o il distacco “pubblico”) del dipendente presso altra amministrazione non incide sullo stato giuridico del pubblico dipendente, né comporta il sorgere di un nuovo rapporto di impiego con l’ente di destinazione, ma lascia inalterato quello originario alla cui disciplina il dipendente rimane sottoposto, con la sola evidente eccezione concernente il rapporto gerarchico nel quale, all’ente di appartenenza, si sostituisce quello di destinazione.

La posizione del soggetto comandato, pur non comportando alcuna alterazione del rapporto di impiego, tuttavia implica una rilevante modificazione in senso oggettivo, giacché l’impiegato viene destinato a prestare servizio, in via ordinaria e abituale, presso un’amministrazione diversa da quella di appartenenza, rilevando che il c.d. “rapporto organico” continua ad intercorrere tra il dipendente e l’ente di appartenenza o di titolarità, mentre si modifica il c.d. “rapporto di servizio”, atteso che il dipendente è inserito, sia sotto il profilo organizzativo – funzionale, sia sotto quello gerarchico e disciplinare, nella nuova amministrazione di destinazione, a favore della quale egli presta esclusivamente la sua opera per il periodo di tempo considerato.

Alla posizione di comando del dipendente presso una nuova amministrazione non si accompagna la corrispondente soppressione del posto in organico presso l’amministrazione di provenienza.

Il trasferimento per mobilità (definitiva) comporta, viceversa, la cessione del contratto di lavoro in essere con l’originaria amministrazione di appartenenza; essa integra una modificazione soggettiva del rapporto di lavoro, con il consenso di tutte le parti.

La particolarità del rapporto è la sua collocazione a termine nell’amministrazioni di destinazione, impone l’esigenza di individuare un momento di inizio del rapporto e un momento di conclusione dello stesso, dimostrando la reversibilità del meccanismo che non può comportare un trasferimento definitivo del dipendente presso l’amministrazione richiedente (trattasi di un mobilità temporanea), impedendo che l’amministrazione “cedente” possa sopprimere il posto in organico.

Nell’accordo, come è stato rimarcato, risultano caratteristiche indefettibili del comando l’interesse dell’amministrazione ricevente e la temporaneità.

L’indicazione del termine, non costituisce tuttavia un vincolo contrattuale verso il dipendente, totalmente estraneo alla decisione amministrativa, bensì solo un termine massimo di utilizzo, decorso il quale occorre un nuovo esercizio del potere per il successivo eventuale rinnovo; e tanto in ossequio al principio della tipicità degli atti amministrativi e alla necessità della fissazione del termine dell’obbligazione giuridica con relativo impegno di spesa assunto nelle forme inderogabili di legge.

Tornando alla disamina iniziale, l’ultimo comma dell’articolo 30 del D.Lgs. n. 165/2001 – introdotto dall’art. 13, comma 2 della Legge n. 183/2010 – chiarisce che le pubbliche amministrazioni, per motivate esigenze organizzative, risultanti dai documenti di programmazione dei fabbisogni di personale, possono utilizzare in assegnazione temporanea, con le modalità previste dai rispettivi ordinamenti, personale di altre amministrazioni per un periodo non superiore a tre anni, delimitando, così facendo, un arco temporale ben prestabilito dal Legislatore.

Tale possibilità era già contemplata nel CCNL dei comparti pubblici, che prevedeva l’istituto dell’assegnazione temporanea, come forma di trasferimento per soddisfare particolari esigenze delle amministrazioni, previo consenso del dipendente e per un periodo massimo di 12 mesi, al termine del quale il dipendente poteva chiedere il passaggio diretto nell’amministrazione dove era stato comandato.

La disposizione de qua ne amplia la possibilità, estendendola da dodici mesi a tre anni; con riguardo poi all’eventuale definitivo trasferimento del dipendente comandato, allo scadere dei 3 anni, a normativa vigente immutata in materia di assunzione, potrebbe comportare la relativa copertura del posto così resosi vacante solo attraverso una selezione pubblica per mobilità in entrata.

Si evidenzia inoltre, che il personale in comando risulta essere tra quello “privilegiato” nell’ambito dei processi di mobilità; invero, il comma 2 bis dell’art. 30 del D.Lgs. n. 165/2001 – che non è stato modificato dal recente D.L. n. 90/2014, convertito in Legge n.114/2014, che è intervenuto con l’art. 4 nel senso di semplificare i processi di mobilità – prevede, infatti, che “le amministrazioni, prima di procedere all’espletamento di procedure concorsuali, finalizzate alla copertura di posti vacanti in organico, devono attivare le procedure di mobilità di cui al comma 1, provvedendo, in via prioritaria, all’immissione in ruolo dei dipendenti, provenienti da altre amministrazioni, in posizione di comando o di fuori ruolo, appartenenti alla stessa area funzionale, che facciano domanda di trasferimento nei ruoli delle amministrazioni in cui prestano servizio. Il trasferimento è disposto, nei limiti dei posti vacanti, con inquadramento nell’area funzionale e posizione economica corrispondente a quella posseduta presso le amministrazioni di provenienza; il trasferimento può essere disposto anche se la vacanza sia presente in area diversa da quella di inquadramento assicurando la necessaria neutralità finanziaria”.

La posizione del comando differisce poi ontologicamente dall’invio in missione che, com’è noto, si caratterizza per il fatto che il dipendente è chiamato a svolgere, sempre in favore dell’amministrazione di appartenenza, la ordinaria prestazione lavorativa per un brevissimo arco di tempo in una sede diversa da quella abituale di servizio (appartenente pur sempre alla stessa amministrazione): proprio tale peculiarità giustifica l’erogazione della c.d. indennità di missione volta a compensare la maggiore onerosità della prestazione dovuta allo stesso datore di lavoro.

Altra differenziazione ermeneutica va fatta tra comando e distacco (o distaccamento) di cui all’art. 2103 del codice civile, ossia il distacco inteso nell’ambito giuslavoristico comune, che a sua volta va differenziato dall’istituto del distacco giuslavoristico pubblico che verrà meglio chiarito appresso.

Si è visto che l’art. 56 del D.P.R. n. 3/1957 è norma di carattere eccezionale e che il  riguarda esclusivamente l’interesse delle Amministrazioni pubbliche, senza volontà negoziale alcuna del dipendente, verso il quale la disposizione di  si inquadra nell’ambito dei propri doveri di lavoratore.

L’art. 2103, invece, è istituto prettamente applicabile al rapporto di lavoro di natura privata, non applicabile al rapporto di lavoro pubblico retto da numerose norme speciali rispetto al diritto comune.

Il distacco si innesta nel più ampio fenomeno del decentramento, sia nell’ambito della stessa azienda che in altre diverse, e quando si è parlato atecnicamente di distacco nell’ambito della Pubblica amministrazione, si è sempre fatto pieno ed esclusivo riferimento all’art. 56 del D.P.R. n. 3/1957, per cui va sempre qualificato l’accordo come  disciplinato da fonti legali (speciali) ante e post– privatizzazione.

Elemento indefettibile del distacco è l’interesse proprio del datore di lavoro di ordine tecnico, organizzativo o produttivo.

(ESTRATTO, LUCCA – ZANON, L’istituto del comando: aspetti vecchi e nuovi alla luce degli orientamenti giurisprudenziali e nell’evoluzione normativa del Comparto delle Autonomie locali, LexItalia, 2014, n.9)