«Libero Pensatore» (è tempo di agire)

Assistiamo ad una recente filiera normativa di emergenza che nell’intento “risorgimentale” di rifare l’Italia e di rispettare il command comunitario di ridurre la spesa pubblica, tra promesse e proclami, intenderebbe anche riformare il rapporto di lavoro nella pubblica amministrazione, pretendendo l’aumento della produttività e dell’orario di servizio ma diminuendo il salario e precarizzando il dipendente pubblico, specie se dirigente, in evidente contrasto con l’obiettivo generale “delle politiche del lavoro pubblico”; politiche, oltre che norme di legge, tese ad assumere il personale pubblico attraverso un concorso e a tempo indeterminato (il lavoro a termine è, o era, una eccezione).

Qualche dovuta perplessità sul reale intento di questa riforma, tra le tante riforme annunciate, è possibile immaginare in un nuovo concetto (e prassi) di relazioni e di contrappesi tra “politica”, che opera rivolta all’indirizzo e alla programmazione, e “amministrazione”, che si adopera per la gestione e il risultato; un tempo il “principio di separazione” garantivano l’imparzialità e l’indipendenza (rectius la legalità) della pubblica amministrazione, precludendo qualsiasi interferenza e confusione nell’esplicazione dell’azione amministrativa, in conseguenza della chiara individuazione dei compiti e delle conseguenti responsabilità politiche e tecniche.

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Senza titolo e senza concorso: la riforma del pubblico impiego

Assistiamo ad una recente filiera normativa di emergenza che nell’intento “risorgimentale” di rifare l’Italia e di rispettare il command comunitario di ridurre la spesa pubblica, tra promesse e proclami, intenderebbe anche riformare il rapporto di lavoro nella pubblica amministrazione, pretendendo l’aumento della produttività e dell’orario di servizio ma diminuendo il salario e precarizzando il dipendente pubblico, specie se dirigente, in evidente contrasto con l’obiettivo generale “delle politiche del lavoro pubblico”; politiche, oltre che norme di legge, tese ad assumere il personale pubblico attraverso un concorso e a tempo indeterminato (il lavoro a termine è, o era, una eccezione).

Qualche dovuta perplessità sul reale intento di questa riforma, tra le tante riforme annunciate, è possibile immaginare in un nuovo concetto (e prassi) di relazioni e di contrappesi tra “politica”, che opera rivolta all’indirizzo e alla programmazione, e “amministrazione”, che si adopera per la gestione e il risultato; un tempo il “principio di separazione” garantivano l’imparzialità e l’indipendenza (rectius la legalità) della pubblica amministrazione, precludendo qualsiasi interferenza e confusione nell’esplicazione dell’azione amministrativa, in conseguenza della chiara individuazione dei compiti e delle conseguenti responsabilità politiche e tecniche.

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In generale la regola aurea finalizzata alla scelta del contraente in ambito pubblico è la procedura aperta (o ristretta in certi casi), ove viene garantita la massima partecipazione degli offerenti e, di conseguenza, la “concorrenza” con lo scopo da una parte, di acquisire una platea di proposte negoziali dai diversi operatori economici (messi in competizione), dall’altra parte, di spendere minori risorse economiche per l’acquisizione di un bene, di un servizio, di un lavoro; il tutto in una visione complessiva di valutazione della “convenienza economica” in relazione all’oggetto del contratto[1].

È di tutta evidenza che la violazione della “concorrenza” provoca maggiori oneri per la p.a. in quanto determina ribassi di gara inferiori a quelli conseguibili con una distesa di operatori economici posti in competizione, rilevando di riflesso che la procedura negoziata (l’ex trattativa privata) ha carattere derogatorio e perciò eccezionale rispetto al modello generale delle procedure aperte e ristrette[2].

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Concorrenza, trasparenza e scelta del contraente

In generale la regola aurea finalizzata alla scelta del contraente in ambito pubblico è la procedura aperta (o ristretta in certi casi), ove viene garantita la massima partecipazione degli offerenti e, di conseguenza, la “concorrenza” con lo scopo da una parte, di acquisire una platea di proposte negoziali dai diversi operatori economici (messi in competizione), dall’altra parte, di spendere minori risorse economiche per l’acquisizione di un bene, di un servizio, di un lavoro; il tutto in una visione complessiva di valutazione della “convenienza economica” in relazione all’oggetto del contratto[1].

È di tutta evidenza che la violazione della “concorrenza” provoca maggiori oneri per la p.a. in quanto determina ribassi di gara inferiori a quelli conseguibili con una distesa di operatori economici posti in competizione, rilevando di riflesso che la procedura negoziata (l’ex trattativa privata) ha carattere derogatorio e perciò eccezionale rispetto al modello generale delle procedure aperte e ristrette[2].

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La competenza, in termini di esercizio di una funzione pubblica, segue i principi costituzionali di imparzialità e buon andamento, una separazione declinata dal TUPI e TUEL che incardina all’organo elettivo compiti di indirizzo, programmazione e controllo affidando alla dirigenza compiti di natura gestionale.
La dirigenza deve conseguire i risultati individuati dall’organo di governo dell’ente; la dirigenza viene valutata in termini di performance in funzione diretta con il programma di mandato, al punto che non appare possibile erogare compensi legati alla produttività se non attraverso le valutazioni degli OIV; valutazioni tecniche “terze” collegate agli obiettivi di bilancio (decisi dagli organi elettivi): un collegamento tra risorse messe a disposizione ed esecuzione della prestazione lavorativa proiettata a dare esiti positivi alle aspettative
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Nomine senza concorso e competenza gestionale

La competenza, in termini di esercizio di una funzione pubblica, segue i principi costituzionali di imparzialità e buon andamento, una separazione declinata dal TUPI e TUEL che incardina all’organo elettivo compiti di indirizzo, programmazione e controllo affidando alla dirigenza compiti di natura gestionale.
La dirigenza deve conseguire i risultati individuati dall’organo di governo dell’ente; la dirigenza viene valutata in termini di performance in funzione diretta con il programma di mandato, al punto che non appare possibile erogare compensi legati alla produttività se non attraverso le valutazioni degli OIV; valutazioni tecniche “terze” collegate agli obiettivi di bilancio (decisi dagli organi elettivi): un collegamento tra risorse messe a disposizione ed esecuzione della prestazione lavorativa proiettata a dare esiti positivi alle aspettative
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La competenza gestionale tra organi elettivi e organi tecnici impone il rispetto del principio di separazione, principio di derivazione costituzionale in relazione ai parametri di imparzialità e buon andamento (ex art.97 Costituzione Italiana).

L’obiettivo è quello di garantire nella gestione della res pubblica (del denaro pubblico) l’affermarsi di regole di trasparenza e pubblicità (di derivazione comunitaria), consentendo – a tutti – (caso di specie professionisti, imprese) di poter partecipare all’esercizio dell’azione amministrativa in condizioni di parità e di concorrenza (libertà di mercato).

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Gli organi elettivi sono “incompetenti” nella gestione

La competenza gestionale tra organi elettivi e organi tecnici impone il rispetto del principio di separazione, principio di derivazione costituzionale in relazione ai parametri di imparzialità e buon andamento (ex art.97 Costituzione Italiana).

L’obiettivo è quello di garantire nella gestione della res pubblica (del denaro pubblico) l’affermarsi di regole di trasparenza e pubblicità (di derivazione comunitaria), consentendo – a tutti – (caso di specie professionisti, imprese) di poter partecipare all’esercizio dell’azione amministrativa in condizioni di parità e di concorrenza (libertà di mercato).

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