«Libero Pensatore» (è tempo di agire)

Il Consiglio dei Ministri, nella seduta n. 75 del 25 marzo 2024, ha approvato lo schema del decreto legislativo di attuazione della legge 17 giugno 2022, n. 71, recante Deleghe al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario militare, nonché disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura, dove alla lettera b), del primo comma, dell’art. 1, Oggetto e procedimento, viene stabilito che il Governo è delegato ad adottare uno o più decreti legislativi recanti disposizioni finalizzate alla trasparenza e all’efficienza dell’ordinamento giudiziario, nel rispetto dei princìpi e criteri direttivi stabiliti nella legge delega, in relazione «alla modifica dei presupposti per l’accesso in magistratura dei laureati in giurisprudenza»[1]

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Test d’ingresso in Magistratura

Test d’ingresso in Magistratura

Il Consiglio dei Ministri, nella seduta n. 75 del 25 marzo 2024, ha approvato lo schema del decreto legislativo di attuazione della legge 17 giugno 2022, n. 71, recante Deleghe al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario militare, nonché disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura, dove alla lettera b), del primo comma, dell’art. 1, Oggetto e procedimento, viene stabilito che il Governo è delegato ad adottare uno o più decreti legislativi recanti disposizioni finalizzate alla trasparenza e all’efficienza dell’ordinamento giudiziario, nel rispetto dei princìpi e criteri direttivi stabiliti nella legge delega, in relazione «alla modifica dei presupposti per l’accesso in magistratura dei laureati in giurisprudenza»[1]

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La legittimazione

La sez. giur. del C.G.A.R.S., con il decreto del 4 marzo 2022, n. 91, interviene per riaffermare i confini della legittimazione del consigliere comunale a fronte della violazione dei propri diritti afferenti alla lesione del munus publicum.

La legittimazione da parte del consigliere comunale, al pari di tutti gli altri soggetti dell’ordinamento, ad impugnare le deliberazioni emanate dal consiglio è ammissibile solo quando esse ledano un suo interesse personale diretto, sicché il consigliere dell’Ente locale non può impugnare le deliberazioni con le quali è semplicemente in disaccordo, perché ciò significherebbe trasporre e continuare nelle sedi di giustizia la competizione che lo ha visto in minoranza, gravando le sedi medesime di decisioni che competono all’organo collegiale elettivo[1].

La questione, nella sua essenzialità, verteva sul difetto di legittimazione e difetto di interesse alla proposizione di un ricorso proposto da un consigliere comunale avverso un atto consigliare, ove si intendeva contrastare l’errato conteggio dei voti, e dunque l’esito del deliberato in relazione alle evidenti ripercussioni sull’esercizio delle funzioni e delle prerogative connesse all’incarico ricoperto (e alla stessa esistenza dell’organo).

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La legittimazione del consigliere comunale sull’errato conteggio dei voti

La legittimazione del consigliere comunale sull’errato conteggio dei voti

La legittimazione

La sez. giur. del C.G.A.R.S., con il decreto del 4 marzo 2022, n. 91, interviene per riaffermare i confini della legittimazione del consigliere comunale a fronte della violazione dei propri diritti afferenti alla lesione del munus publicum.

La legittimazione da parte del consigliere comunale, al pari di tutti gli altri soggetti dell’ordinamento, ad impugnare le deliberazioni emanate dal consiglio è ammissibile solo quando esse ledano un suo interesse personale diretto, sicché il consigliere dell’Ente locale non può impugnare le deliberazioni con le quali è semplicemente in disaccordo, perché ciò significherebbe trasporre e continuare nelle sedi di giustizia la competizione che lo ha visto in minoranza, gravando le sedi medesime di decisioni che competono all’organo collegiale elettivo[1].

La questione, nella sua essenzialità, verteva sul difetto di legittimazione e difetto di interesse alla proposizione di un ricorso proposto da un consigliere comunale avverso un atto consigliare, ove si intendeva contrastare l’errato conteggio dei voti, e dunque l’esito del deliberato in relazione alle evidenti ripercussioni sull’esercizio delle funzioni e delle prerogative connesse all’incarico ricoperto (e alla stessa esistenza dell’organo).

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Il pronunciamento

La Corte Cost., con la sentenza n. 240 del 7 dicembre 2021 (redattore Stefano Petitti), interviene per allarmare il legislatore (quello che dovrebbe scrivere le leggi) affinché sia assicurata la libertà di voto, espressione compiuta delle democrazie evolute dove, a fianco della separazione dei poteri e non della loro concentrazione (diversamente saremo di fronte ad un regime) la rappresentanza degli Enti esponenziali delle Comunità (quelle territoriali) avviene previa elezione da parte del corpo elettorale: il popolo.

In termini più diretti, l’elezione attuale (come definita dalla riforma degli “Enti di area vasta”) dei Sindaci delle Città metropolitane (enti di secondo livello) è in contrasto con il principio di uguaglianza del voto (attiene ai diritti politici e, segnatamente di elettorato attivo) e pregiudica la responsabilità politica del vertice nominato (con elezioni di secondo grado, ossia da parte degli amministratori locali eletti o automaticamente coincidente per legge, ovvero il Sindaco metropolitano risulta «di diritto» il Sindaco del Comune capoluogo) nei confronti degli elettori: è necessario assicurare ai cittadini la possibilità di esprimere, in via diretta o indiretta, i propri rappresentanti: la persistenza di questo sistema risulta «del tutto ingiustificato».

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La riforma delle Città Metropolitane e delle Province: un fallimento dei diritti politici

La riforma delle Città Metropolitane e delle Province: un fallimento dei diritti politici

Il pronunciamento

La Corte Cost., con la sentenza n. 240 del 7 dicembre 2021 (redattore Stefano Petitti), interviene per allarmare il legislatore (quello che dovrebbe scrivere le leggi) affinché sia assicurata la libertà di voto, espressione compiuta delle democrazie evolute dove, a fianco della separazione dei poteri e non della loro concentrazione (diversamente saremo di fronte ad un regime) la rappresentanza degli Enti esponenziali delle Comunità (quelle territoriali) avviene previa elezione da parte del corpo elettorale: il popolo.

In termini più diretti, l’elezione attuale (come definita dalla riforma degli “Enti di area vasta”) dei Sindaci delle Città metropolitane (enti di secondo livello) è in contrasto con il principio di uguaglianza del voto (attiene ai diritti politici e, segnatamente di elettorato attivo) e pregiudica la responsabilità politica del vertice nominato (con elezioni di secondo grado, ossia da parte degli amministratori locali eletti o automaticamente coincidente per legge, ovvero il Sindaco metropolitano risulta «di diritto» il Sindaco del Comune capoluogo) nei confronti degli elettori: è necessario assicurare ai cittadini la possibilità di esprimere, in via diretta o indiretta, i propri rappresentanti: la persistenza di questo sistema risulta «del tutto ingiustificato».

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La fonte

L’art. 16, Riduzione dei costi relativi alla rappresentanza politica nei comuni e razionalizzazione dell’esercizio delle funzioni comunali, del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo, convertito in legge n. 148/2011 prevede:

  • al comma 25 che «i revisori dei conti degli enti locali sono scelti mediante estrazione da un elenco nel quale possono essere inseriti, a richiesta, i soggetti iscritti, a livello provinciale, nel Registro dei revisori legali di cui al decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 39, nonché gli iscritti all’Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili», rilevando che il “criterio dell’estrazione” esprime una regola generale idonea ad assicurare la neutralità (alias imparzialità) di giudizio nella scelta, affidata alla sorte senza influenze esterne e/o condizionamento[1];
  • al comma 25 bis (inserito dall’ art. 57 ter, comma 1, lett. b), del D.L. 26 ottobre 2019, n. 124, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 dicembre 2019, n. 157) che «nei casi di composizione collegiale dell’organo di revisione economico-finanziario previsti dalla legge, in deroga al comma 25, i consigli comunali, provinciali e delle città metropolitane e le unioni di comuni che esercitano in forma associata tutte le funzioni fondamentali eleggono, a maggioranza assoluta dei membri, il componente dell’organo di revisione con funzioni di presidente, scelto tra i soggetti validamente inseriti nella fascia 3 formata ai sensi del regolamento di cui al decreto del Ministro dell’interno 15 febbraio 2012, n. 23, o comunque nella fascia di più elevata qualificazione professionale in caso di modifiche al citato regolamento», affidando la scelta all’organo elettivo, dove la mediazione e la componente “fiduciaria” assume una certa rilevanza nella composizione del voto, e di conseguenza della scelta.

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Elezione del presidente del collegio dei revisori

Elezione del presidente del collegio dei revisori

La fonte

L’art. 16, Riduzione dei costi relativi alla rappresentanza politica nei comuni e razionalizzazione dell’esercizio delle funzioni comunali, del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo, convertito in legge n. 148/2011 prevede:

  • al comma 25 che «i revisori dei conti degli enti locali sono scelti mediante estrazione da un elenco nel quale possono essere inseriti, a richiesta, i soggetti iscritti, a livello provinciale, nel Registro dei revisori legali di cui al decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 39, nonché gli iscritti all’Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili», rilevando che il “criterio dell’estrazione” esprime una regola generale idonea ad assicurare la neutralità (alias imparzialità) di giudizio nella scelta, affidata alla sorte senza influenze esterne e/o condizionamento[1];
  • al comma 25 bis (inserito dall’ art. 57 ter, comma 1, lett. b), del D.L. 26 ottobre 2019, n. 124, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 dicembre 2019, n. 157) che «nei casi di composizione collegiale dell’organo di revisione economico-finanziario previsti dalla legge, in deroga al comma 25, i consigli comunali, provinciali e delle città metropolitane e le unioni di comuni che esercitano in forma associata tutte le funzioni fondamentali eleggono, a maggioranza assoluta dei membri, il componente dell’organo di revisione con funzioni di presidente, scelto tra i soggetti validamente inseriti nella fascia 3 formata ai sensi del regolamento di cui al decreto del Ministro dell’interno 15 febbraio 2012, n. 23, o comunque nella fascia di più elevata qualificazione professionale in caso di modifiche al citato regolamento», affidando la scelta all’organo elettivo, dove la mediazione e la componente “fiduciaria” assume una certa rilevanza nella composizione del voto, e di conseguenza della scelta.

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Tutte le popolazioni interessate devono partecipare al referendum e il quesito referendario deve essere comprensibile.

Il referendum generalmente viene considerato una delle principali espressioni di democrazia diretta o partecipata, distinguendosi dal meccanismo della democrazia rappresentativa indiretta: un esercizio di sovranità popolare di una potestà normativa senza intermediazione dei rappresentanti politici e del tradizionale monopolio parlamentare della legge, integrando le fonti del diritto (Corte Cost., 22 ottobre 1990, n. 468).

In una società pluralista, costituisce un correttivo ai processi legislativi e uno strumento di partecipazione popolare rispetto alla mediazione delle assemblee rappresentative (e degli eletti): una sorta di soccorso al completamento della volontà elettiva.

In questo caso, il Comune di Venezia e la Città Metropolitana di Venezia ricorrono contro la Regione Veneto per l’annullamento di una serie di atti, del Consiglio Regionale del Veneto, riferiti alla “meritevolezza” della consultazione popolare sulla «suddivisione del Comune di Venezia nei due Comuni autonomi di Venezia e Mestre».

L’indizione del referendum, essendo atto politico, sarebbe sottratto al sindacato giurisdizionale sia del G.A. che del G.O. e, comunque, trattandosi di referendum consultivo e non vincolante per la Regione, la sua celebrazione non lederebbe alcun interesse giuridicamente rilevante.

La prima sezione del T.A.R. Veneto, con la sentenza n. 864 del 14 agosto 2018, interviene sull’argomento chiarendo da principio che la deliberazione di indizione di un referendum è sindacabile, in quanto tale, dal G.A. sino a quando non sia ancora in vigore la legge di “variazione territoriale” (ex art. 133, secondo comma Cost.), effetto utile dell’intero procedimento referendario, e allo stesso tempo non può considerarsi atto di natura politica, dunque non impugnabile, ex art. 7 c.p.a. (Corte Cost., sentenza n. 2/2018).

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Consultazione popolare e rappresentanza elettorale: il referendum sulla divisione di Venezia

Consultazione popolare e rappresentanza elettorale: il referendum sulla divisione di Venezia

Tutte le popolazioni interessate devono partecipare al referendum e il quesito referendario deve essere comprensibile.

Il referendum generalmente viene considerato una delle principali espressioni di democrazia diretta o partecipata, distinguendosi dal meccanismo della democrazia rappresentativa indiretta: un esercizio di sovranità popolare di una potestà normativa senza intermediazione dei rappresentanti politici e del tradizionale monopolio parlamentare della legge, integrando le fonti del diritto (Corte Cost., 22 ottobre 1990, n. 468).

In una società pluralista, costituisce un correttivo ai processi legislativi e uno strumento di partecipazione popolare rispetto alla mediazione delle assemblee rappresentative (e degli eletti): una sorta di soccorso al completamento della volontà elettiva.

In questo caso, il Comune di Venezia e la Città Metropolitana di Venezia ricorrono contro la Regione Veneto per l’annullamento di una serie di atti, del Consiglio Regionale del Veneto, riferiti alla “meritevolezza” della consultazione popolare sulla «suddivisione del Comune di Venezia nei due Comuni autonomi di Venezia e Mestre».

L’indizione del referendum, essendo atto politico, sarebbe sottratto al sindacato giurisdizionale sia del G.A. che del G.O. e, comunque, trattandosi di referendum consultivo e non vincolante per la Regione, la sua celebrazione non lederebbe alcun interesse giuridicamente rilevante.

La prima sezione del T.A.R. Veneto, con la sentenza n. 864 del 14 agosto 2018, interviene sull’argomento chiarendo da principio che la deliberazione di indizione di un referendum è sindacabile, in quanto tale, dal G.A. sino a quando non sia ancora in vigore la legge di “variazione territoriale” (ex art. 133, secondo comma Cost.), effetto utile dell’intero procedimento referendario, e allo stesso tempo non può considerarsi atto di natura politica, dunque non impugnabile, ex art. 7 c.p.a. (Corte Cost., sentenza n. 2/2018).

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La prima sezione civile della Corte di Cassazione, con ordinanza 17 maggio 2013 n. 12060, dichiara rilevanti e non manifestamente infondate le norme circa l’attribuzione del premio di maggioranza per la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica e l’esclusione del voto di preferenza della legge elettorale (c.d. “Porcellum”).

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La legge elettorale (c.d. “Porcellum”) è anticostituzionale?

La prima sezione civile della Corte di Cassazione, con ordinanza 17 maggio 2013 n. 12060, dichiara rilevanti e non manifestamente infondate le norme circa l’attribuzione del premio di maggioranza per la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica e l’esclusione del voto di preferenza della legge elettorale (c.d. “Porcellum”).

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