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Articolo Pubblicato il 27 Settembre, 2025

La gestione di impianti sciistici: un contratto attivo

La gestione di impianti sciistici: un contratto attivo
  1. Il pronunciamento

La sez. I Brescia del TAR Lombardia, con la sentenza 12 agosto 2025, n. 764, offre una chiara definizione di contratto attivo (non produce «spesa e da cui deriva un’entrata per la pubblica amministrazione», lettera h), art. 2, Definizione dei contratti, dell’all.I.1, del d.lgs. n. 36/2023), il quale comporta un’opportunità di guadagno economico, anche indiretto, assoggettato ai principi del risultato, della fiducia e dell’accesso al mercato, potendo affermare che la gestione di un compendio sciistico:

– non rientra tra il perimetro dell’appalto di servizi, mancando il trasferimento del c.d. “rischio operativo di gestione”;

– assegnabile con procedura aperta, escludendo l’affidamento diretto [1].

  1. Nozione dei contratti attivi e accesso al mercato

L’affidamento deve assicurare un nucleo minimo di principi applicabili, tra i quali la tutela della concorrenza e della parità di trattamento, in presenza della norma dell’art. 13, Ambito di applicazione, del Codice dei contratti che recita:

– comma 2: «le disposizioni del codice non si applicano ai contratti esclusi, ai contratti attivi e ai contratti a titolo gratuito, anche qualora essi offrano opportunità di guadagno economico, anche indiretto»,

– comma 5, da coordinarsi: «l’affidamento dei contratti di cui al comma 2 che offrono opportunità di guadagno economico, anche indiretto, avviene tenendo conto dei principi di cui agli articoli 1, 2 e 3».

In effetti, siamo alla presenza di proiezioni applicative dei principi preordinati a garantire la scelta del miglior contraente possibile [2], nel rispetto della par condicio, osservando, altresì, che il principio del risultato era già “immanente” al sistema della c.d. amministrazione di risultato (ricondotto al principio di buon andamento dell’attività amministrativa, già prima dell’espressa affermazione contenuta nell’art. 1 del d. lgs. n. 36 del 2023) [3] ed è, appunto, funzionale a portare a compimento l’intervento pubblico nel modo più rispondente agli interessi della collettività (da ricomprendere i principi della contabilità dello Stato, precedenti a quelli comunitari della concorrenza) nel pieno rispetto delle regole che governano il ciclo di vita dell’intervento medesimo [4].

Di recente, in occasione di un controverso affidamento di un festival nazionale, il Consiglio di Stato [5] ebbe ad affermare, che la qualificazione della “concessione del marchio canoro” si profila in termini di “contratto attivo”, dal quale discende un’entrata a beneficio dell’Amministrazione; come tale, lo stesso è sottratto all’applicazione del Codice dei contratti pubblici (ex art. 13, comma 2, del d.lgs. n. 36 del 2023), bensì soggetto ai relativi principi, giacché il relativo «affidamentoavviene tenendo conto dei principi di cui agli articoli 1, 2 e 3» (ex art. 13, comma 5, del d.lgs. n. 36 del 2023): l’art. 3, comma 1, della Legge contabilità dello Stato (Regio Decreto 18 novembre 1923, n. 2440) e art. 41 del Regolamento per l’amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato (regio decreto 23 maggio 1924, n. 827), disposizioni che «non fanno venir meno il precetto (posteriore) di cui all’art. 13, comma 5, cit., che fa riferimento fra l’altro proprio al principio di accesso al mercato (e correlata concorrenza, imparzialità, non discriminazione, pubblicità, trasparenza e proporzionalità) di cui all’art. 3 d.lgs. n. 36 del 2023».

Ne deriva che il principio dell’accesso al mercato impone di garantire la concorrenza, l’imparzialità e la non discriminazione degli operatori, oltre ai principi di pubblicità, trasparenza e proporzionalità; accanto al citato art. 13, la disciplina dei contratti attivi è rinvenibile anche nel regolamento di contabilità dello Stato, approvato con Regio Decreto n. 827 del 1924, tuttora vigente [6].

  1. La concorrenza

È di rilievo rimarcare che i valori comunitari della “concorrenza e della libertà di iniziativa economica”, intendono rimuovere le restrizioni all’ingresso di nuovi operatori sul mercato e richiedono una spinta verso la liberalizzazione delle attività e, al contempo, una limitazione delle posizioni dominanti [7] da parte di singoli soggetti, con ricadute sul territorio per l’implementazione dell’offerta a costi ridotti (il c.d. risparmio).

Non in modo incerto, per fare quale esempio del tutto banale, il “rinnovo o la proroga automatica” delle concessioni di beni demaniali pone (da sempre) delle evidenti contraddizioni di libertà di stabilimento e di tutela della concorrenza [8], determinando una disparità di trattamento tra operatori economici dal momento che coloro che in precedenza non gestivano il demanio marittimo non hanno la possibilità, alla scadenza della concessione, di prendere il posto del vecchio gestore e al contempo impedisce l’ingresso di altri potenziali operatori economici nel mercato, ponendo barriere all’ingresso, tali da alterare la concorrenza [9].

Volendo puntualizzare la portata del principio della “concorrenza” (anelato dal diritto UE) non si può non richiamare le norme sul procedimento amministrativo del comma 1, parte finale, dall’art. 1 della legge n. 241/1990, dove «l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge… secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi dell’ordinamento comunitario», oppure la parte finale del comma 3, dell’art. 1 del d.lgs. n. 36/2023, nel chiarire che «il principio del risultato costituisce attuazione, nel settore dei contratti pubblici, del principio del buon andamento e dei correlati principi di efficienza, efficacia ed economicità. Esso è perseguito nell’interesse della comunità e per il raggiungimento degli obiettivi dell’Unione europea» (tralasciando i disseminati riferimenti presenti nel Codice dei contratti pubblici sul rispetto dei principi e delle norme comunitarie), segnando una non celata influenza (c.d. impossessamento) del diritto dell’Unione europea sull’ordinamento nazionale, esercitando un sindacato forte sulle scelte discrezionali (tecniche), dove anche il merito può essere scrutinato nella forma del vizio di sviamento del potere o il suo travalicamento quando venga adottato un atto amministrativo che non assicuri di operare all’interno del quadro delle regole UE.

In questa trama di principi sovrapponibili, va tenuto in debito conto la gerarchia degli interessi pubblici, intimamente collegati al risultato utile, aspetti la cui rilevanza giuridica integra i parametri della legittimità dell’azione amministrativa nella sua dimensione concreta (effettività) rispetto all’astrattezza della norma, funzionale all’attuazione delle politiche pubbliche, ulteriori rispetto all’oggetto negoziale immediato: l’accesso al mercato nella sua finalizzazione a multiformi obiettivi pubblici (il c.d. valore pubblico) da considerarsi alla stregua della “buona amministrazione” nell’esercizio della funzione pubblica, recuperando fiducia e immagine presso i cittadini e gli investitori privati.

  1. Il fatto

Un’Amministrazione locale acquista da una SRL la proprietà del ramo d’azienda di un comprensorio sciistico, nonché i diritti di servitù perpetua sui terreni percorsi dalle piste da sci; la cit. SRL chiede l’affidamento della gestione (o quanto meno l’invito), richiesta respinta con affidamento diretto del servizio di gestione degli impianti ad altra società (una stagione nell’imminenza di un “partenariato pubblico-privato”), qualificandolo come un contratto di appalto di servizi, riconducibile all’art. 50, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 36/2023, donde il ricorso al GA per l’annullamento degli atti per l’assenza dell’evidenza pubblica.

Pare giusto osservare che altra società aveva richiesto inutilmente di essere invitata al confronto concorrenziale.

La società ricorrente pone in rilievo che trattasi non già di appalto, bensì concessione, così come definita dall’art. 2, All.l.1, del Codice dei contratti pubblici: di conseguenza l’Ente non avrebbe potuto procedere all’affidamento diretto, incorrendo nella violazione degli artt. 27, 85, 176 e seguenti del d.lgs. n. 36/2023, nonché degli artt. 49 e 147 del d.lgs. n. 267/2000.

Il Comune resistente inquadra il rapporto non in termini di una “concessione” ma quale “contratto attivo”, rientrante tra i contratti esclusi dall’applicazione delle disposizioni del Codice, e assoggettato unicamente ai principi generali ritenuti rispettati: la ricorrente, di converso, afferma che volendo inquadrare la fattispecie all’interno di un contratto attivo, sarebbe stato in ogni caso necessario l’espletamento di un procedimento ad evidenza pubblica, in applicazione dell’art. 3 RD n. 2440/1923.

Viene, inoltre, richiesto il ristoro al danno conseguente alla perdita dell’affidamento.

  1. Inquadramento

Prima di dichiarare il ricorso accoglibile con condanna alle spese, il giudice amministrativo vaglia l’oggetto negoziale: «gestione degli Impianti di risalita e delle aree e strutture accessorie, del comprensorio sciistico… La gestione di cui al presente Capitolato d’Oneri sarà affidata, per il periodo intercorrente…, dall’Amministrazione comunale attraverso le procedure di cui all’art. 50 comma 1 lettera b) del D.Lgs. n. 36/23 mediante affidamento diretto», deducendo gli obblighi di gestione e manutenzione per garantirne il corretto funzionamento e l’apertura al pubblico, con l’obbligo di corresponsione di un canone in favore del Comune pari ad € 139.000,00.

In termini più espliciti, a fronte del pagamento del corrispettivo l’affidatario assume l’obbligo di gestire gli impianti, sostenendone tutte le spese, e di metterli a disposizione del pubblico per il periodo indicato, potendo acquisire il vantaggio economico derivante dal pagamento del biglietto posto a carico degli utilizzatori, mentre nessun obbligo o onere è posto a carico dell’Amministrazione: la conclusione porta a ritenere che non siamo di fronte ad un appalto non ricorrendo gli elementi tipici di tale figura negoziale, la quale è caratterizzata dall’assenza del trasferimento, in capo all’affidatario, del rischio di gestione.

L’attività svolta dall’affidatario non è remunerata dall’Amministrazione ma dall’utenza, con assunzione del rischio operativo o rischio di gestione, non essendovi la certezza del recupero degli investimenti effettuati e dei costi sostenuti.

  1. Distinzioni tra appalto e concessione

Il discrimine tra appalto e concessione si può rinvenire nel rapporto tra gestore, PA e utenza: l’appalto pubblico di servizi, a differenza della concessione di servizi, riguarda di regola servizi resi alla Pubblica Amministrazione e non al pubblico degli utenti, non comporta il trasferimento del diritto di gestione quale controprestazione, ed infine non determina, in ragione delle modalità di remunerazione, l’assunzione del rischio di gestione da parte dell’affidatario [10].

L’art. 174, comma 3, del d.lgs. n. 36/2023, stabilisce che «il partenariato pubblico-privato di tipo contrattuale comprende le figure della concessione, della locazione finanziaria e del contratto di disponibilità, nonché gli altri contratti stipulati dalla pubblica amministrazione con operatori economici privati che abbiano i contenuti di cui al comma 1 e siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela», ricavando che la concessione è un contratto di partenariato pubblico privato, che il comma 1, dello stesso art. 174, definisce come un’operazione economica tra un ente concedente e uno o più operatori economici privati tra i quali «è instaurato un rapporto contrattuale di lungo periodo per raggiungere un risultato di interesse pubblico» (comma 1 lett. a), del cit. art.).

Pur ammettendo l’opinabilità del “lungo periodo”, nel caso di specie (alcuni mesi) non si può far rientrare il rapporto nella concessione di servizi, riconducendo, più correttamente al novero dei contratti attivi, dal quale deriva per il gestore un’opportunità di guadagno, rappresentata dalla gestione degli impianti e dalla messa a disposizione degli stessi, dietro remunerazione, in favore degli utenti.

In questa linea interpretativa si assesta la stessa sezione del TAR Brescia [11], quando a breve distanza, postula che un contratto (di affidamento del servizio di gestione dei cimiteri comunali, ivi compresi il servizio di illuminazione votiva e di gestione e conduzione dei pannelli fotovoltaici) deve essere qualificato come “appalto di servizi” e non come “concessione”, nel caso in cui, alla stregua delle previsioni negoziali del capitolato speciale, risulti che le prestazioni poste in capo all’affidataria e costituenti oggetto del contratto vengono rese in favore dell’Amministrazione e sono remunerate da quest’ultima, senza alcun trasferimento in capo alla società del rischio operativo o del rischio di gestione: manca una soglia di incertezza sul pagamento del servizio, incertezza che diversamente viene traslata nell’operatore economico nella concessione di servizi, accettando questa evenienza, ossia la fluttuazione del mercato, quell’instabilità tipica del rischio.

Alla luce dei principi enunciati, deriva che un contratto di concessione è generalmente caratterizzato dalla presenza dei seguenti elementi:

  1. a) assunzione da parte del concessionario del rischio operativo, caratterizzato dalla traslazione al gestore dell’incertezza sull’utilità economica dell’erogazione del servizio;
  2. b) somministrazione del servizio a favore della generalità dell’utenza e non solo della PA;
  3. c) il corrispettivo coincide unicamente con il diritto di sfruttare economicamente il servizio o in tale diritto accompagnato da un prezzo.

A ben vedere (in generale), in un contratto di partenariato (concessione/project) l’alterazione del mercato (aumento dei costi del gestore), dipendente da diversi fattori esogeni (quali, ad es. l’aumento del prezzo delle materie prime e/o dei costi energetici o del minor afflusso di utenza), deve essere valutato ex ante nei documenti di fattibilità finanziaria (piano economico/finanziario, c.d. PEF), dove la remunerazione dell’investimento viene spalmata negli anni (ecco, appunto, la durata estesa) non potendo, una volta aggiudicata la gara e sottoscritto il contratto – concessione, pretendere dalla PA un adeguamento del canone al rischio che da potenziale si fa attuale, ovvero pretendere l’erogazione di un contributo a copertura dei costi (ulteriori), invocando l’eccessiva onerosità sopraggiunta (condizione tipica, ad es. nella gestione degli impianti sportivi): aspetto che rientra nella c.d. alea del contratto (oltre che causa del contratto), portando non certo alla novazione (revisione) del rapporto semmai alla sua risoluzione del contratto [12].

Inoltre, la parte pubblica concedente (creditore) qualora intenda agire per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento, deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto e il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto (concessionario) è gravato dell’onere della dimostrazione del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, o dall’eccezione d’inadempimento del creditore (ex art. 1460 cod. civ.) [13].

Ne consegue, senza indugiare oltre, che non assume al riguardo rilievo la sopravvenienza di circostanze prevedibili che rendano comunque eccessivamente gravoso – e pertanto inesigibile – l’adempimento della prestazione, vertendosi in tal caso non già in tema di alterazione dell’economia contrattuale bensì d’inadempimento: l’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, per potere determinare la risoluzione del contratto, richiede la sussistenza di due necessari requisiti:

– da un lato, un intervenuto squilibrio tra le prestazioni, non previsto al momento della conclusione del contratto;

– dall’altro, la riconducibilità della eccessiva onerosità sopravvenuta ad eventi straordinari (sempre di natura oggettiva) ed imprevedibili (deve trovare fondamento soggettivo, facendo riferimento alla fenomenologia della conoscenza) che non rientrano nell’ambito della normale alea contrattuale [14].

Resta inteso che il d.lgs. n. 36/2023 riserva una parte delle norme in fase di esecuzione delle concessioni (Libro IV, Del partenariato pubblico-privato e delle concessioni, Parte II, Dei contratti di concessione, Titolo III, L’esecuzione delle concessioni), con possibilità di modifica, risoluzione, subentro e revisione del contratto.

In modo ancor più esplicito, se la caratteristica principale della concessione, ossia l’autorizzazione a gestire o sfruttare un’opera o un servizio, implica sempre il trasferimento al concessionario di un rischio operativo di natura economica che comporta la possibilità di non riuscire a recuperare gli investimenti effettuati ed i costi sostenuti per realizzare i lavori o i servizi, questo rischio grava – inevitabilmente – sul concessionario: concessionario, gestore del servizio, che dovrà garantirsi rifacendosi essenzialmente sull’utenza per mezzo della riscossione di un qualsiasi tipo di canone o tariffa sfruttando al meglio i beni per realizzare un servizio affidato dalla PA concedente, proprio allo scopo (la scelta) di non gestire direttamente le prestazioni e le connesse incognite [15].

Tale aspetto è in modo solare confermato dal comma 1, dell’art. 177, Contratto di concessione e traslazione del rischio operativo, del Codice dei contratti pubblici, il quale prevede che «l’aggiudicazione di una concessione comporta il trasferimento al concessionario di un rischio operativo legato alla realizzazione dei lavori o alla gestione dei servizi e comprende un rischio dal lato della domanda o dal lato dell’offerta o da entrambi».

In definitiva, la linea di demarcazione tra “appalti pubblici di servizi” e “concessioni di servizi” è netta [16], poiché l’appalto pubblico di servizi, a differenza della concessione di servizi, riguarda di regola servizi resi alla Pubblica Amministrazione e non al pubblico degli utenti, non comporta il trasferimento del diritto di gestione quale controprestazione, ed infine non determina, in ragione delle modalità di remunerazione, l’assunzione del rischio di gestione da parte dell’affidatario [17].

  1. Le regole dell’affidamento di un contratto attivo

A questo punto, il Tribunale definisce il contratto attivo:

– non produce «spesa e da cui deriva un’entrata per la pubblica amministrazione»;

– è sottratto alla disciplina del Codice dei contratti pubblici, offrendo all’affidatario opportunità di guadagno, deve avvenire, secondo quanto dispone il comma 5, dell’art. 13, osservando i principi di cui agli articoli 1, 2 e 3 del Codice, e dunque, oltre che dei princìpi del risultato (ex 1) e della fiducia (ex art. 2), anche del principio di accesso al mercato (ex art. 3), nel rispetto dei principi di concorrenza, imparzialità, non discriminazione, pubblicità, trasparenza e proporzionalità [18];

– l’affidamento deve garantire l’interpello del mercato e il confronto concorrenziale, nel rispetto della disciplina di cui alla legge di contabilità generale dello Stato (ex RD 18 novembre 1923, n. 2440) e del relativo regolamento di attuazione (ex RD 23 maggio 1924, n. 827).

Alla luce di queste elementari e chiare regole (anche datate) il principio di accesso al mercato non è stato rispettato, avendo il Comune resistente disposto un affidamento diretto senza adeguata pubblicità e senza coinvolgere altri operatori, nonostante sia la ricorrente sia altra impresa avessero manifestato l’interesse all’assunzione dell’affidamento, rilevando che a trattativa privata di un contratto attivo, è ammesso quale ipotesi residuale, in caso di necessità, allorché ricorrano circostanze “speciali ed eccezionali” che non consentano il ricorso alle procedure ordinarie.

Tutte condizioni non riscontrabili nel caso trattato, avendo avuto l’Amministrazione il tempo necessario per l’evidenza pubblica, «anche considerato l’esiguità del corrispettivo contrattuale, non particolarmente complessa, come quella in questione».

  1. Risarcimento della perdita di chance

Appurata l’illegittimità degli atti di affidamento, nonché la conclusione del contratto, il Tribunale passa a definire il risarcimento, avendo cura di premettere gli elementi costitutivi della responsabilità civile della PA (ex art. 2043 cod. civ., tutti aspetti che devono essere provati da chi formula la domanda) [19] sotto il profilo:

– oggettivo: il fatto illecito, il nesso di causalità materiale, il danno ingiusto [20], inteso come lesione alla posizione di interesse legittimo (il fatto lesivo deve essere collegato, con un nesso di causalità giuridica o funzionale, con i pregiudizi patrimoniali o, eventualmente, non patrimoniali lamentati);

– soggettivo: il dolo o la colpa.

Si dovrà verificare che risulti leso, per effetto dell’attività illegittima (e colpevole dell’Amministrazione pubblica), il bene della vita al quale il soggetto aspira: nel senso che l’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa ha impedito l’affidamento (nesso di causalità materiale tra la condotta illecita e l’evento dannoso) [21], atteso che è soltanto la lesione di quest’ultimo che qualifica in termini di ingiustizia il danno derivante dal provvedimento illegittimo [22].

Non va dimenticato che dal punto di vista dell’onere probatorio, esso incombe sul danneggiato, ex artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c., per cui sulla parte ricorrente grava l’onere di dimostrare la sussistenza di tutti i presupposti della domanda al fine di ottenere il riconoscimento di una responsabilità dell’Amministrazione per danni derivanti dall’illegittimo od omesso svolgimento dell’attività amministrativa [23].

In effetti, con riguardo all’“an”, non si dovrà valutare solo l’illegittimità provvedimentale ma anche per l’appunto la dimostrazione probatoria e la positiva verifica sia della lesione del bene della vita, sia del nesso causale tra l’illecito e quest’ultima sia della sussistenza della colpevolezza dell’Amministrazione: la c.d. imputazione soggettiva con l’accertamento in concreto della colpa [24], configurabile allorquando l’adozione dell’atto illegittimo sia avvenuta in violazione delle regole proprie dell’azione amministrativa, desumibili sia dai principi costituzionali in punto di imparzialità e buon andamento, sia dalle norme di legge ordinaria in punto di celerità, efficienza, efficacia, economicità e trasparenza, sia dai principi generali dell’ordinamento in punto di ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza (occorre avere riguardo al carattere ed al contenuto della regola di azione violata) [25].

Ciò posto, quando non sia possibile raggiungere la prova dell’affidamento certo, il danno patrimoniale può essere liquidato (viene così accolta la richiesta risarcitoria stabilendone i criteri) ricorrendo alla tecnica risarcitoria della “lesione della chance” ovvero del c.d. “danno da perdita di chance”, ovvero la “possibilità più che probabile[26], di conseguire l’affidamento (non, quindi, danno da “mancata aggiudicazione”) che assolve alla funzione di tutelare l’aspettativa delusa di aggiudicarsi il contratto, sia pure per equivalente, per l’assenza dell’espletamento della procedura amministrativa (illegittimo affidamento diretto) [27].

La risarcibilità della chance di aggiudicazione è ammissibile allorché il danno sia collegato alla dimostrazione di una seria probabilità di conseguire il vantaggio sperato, dovendosi, per converso, escludere la risarcibilità allorché la chance di ottenere l’utilità perduta resti nel novero della mera possibilità [28], che non assume il carattere di “probabilità seria e concreta[29].

A questo punto, il Collegio (dopo una compiuta analisi giurisprudenziale) intende aderire all’orientamento [30] secondo il quale è necessario l’accertamento del nesso causale – tra la condotta antigiuridica e l’evento lesivo -consistente nella perdita della predetta possibilità, utilizzando una tecnica probabilistica (il canone del più probabile che non, anche la sussistenza di serie e non insignificanti possibilità di conseguirlo), non per accertare l’esistenza della chance come bene a sé stante, bensì per misurare in modo equitativo il ‘valore’ economico della stessa, in sede di liquidazione del ‘quantum’ risarcibile, scongiurando azioni bagatellari o emulative.

  1. Proiezioni

La sentenza, con una ricca disamina esegetica e di contesto, offre un quadro ben definito degli affidamenti posti al di fuori del d.lgs. n. 36/2023, dove anche volendo non avvicinarsi agli atti comunitari sulla concorrenza, in aperta violazione di legge, la visione delle regole nazionali di contabilità pubblica sul risparmio, in chiave prettamente economica, esigono – un dovere vincolato – il confronto tra operatori economici, dando sfogo al mercato: una forgiatura etica ritenuta antica da alcuni.

Il modello cogente dell’“evidenza pubblica”, nella sua palmare e scolpita staticità, non si presta a interpretazioni discrezionali (di merito) quando si intende assegnare un bene pubblico, in nome non solo della “trasparenza” e della “prevenzione della corruzione” ma dal tessuto ordinamentale dei principi costituzionali di solidarietà e imparzialità, oltre che di giustizia ed equità non certo di opportunità, intrisi nell’humus valoriale dei primi articoli del Codice dei contratti pubblici, adottato (si ricorda) al fine di evitare procedure di infrazione da parte della Commissione europea.

Non servono ulteriori arresti (video meliora proboque, deteriora sequor, MEDEA).

(estratto, LexItalia.it., n. 8, 27 agosto 2025)