«Libero Pensatore» (è tempo di agire)
Articolo Pubblicato il 31 Maggio, 2014

Concorrenza, trasparenza e scelta del contraente

In generale la regola aurea finalizzata alla scelta del contraente in ambito pubblico è la procedura aperta (o ristretta in certi casi), ove viene garantita la massima partecipazione degli offerenti e, di conseguenza, la “concorrenza” con lo scopo da una parte, di acquisire una platea di proposte negoziali dai diversi operatori economici (messi in competizione), dall’altra parte, di spendere minori risorse economiche per l’acquisizione di un bene, di un servizio, di un lavoro; il tutto in una visione complessiva di valutazione della “convenienza economica” in relazione all’oggetto del contratto[1].

È di tutta evidenza che la violazione della “concorrenza” provoca maggiori oneri per la p.a. in quanto determina ribassi di gara inferiori a quelli conseguibili con una distesa di operatori economici posti in competizione, rilevando di riflesso che la procedura negoziata (l’ex trattativa privata) ha carattere derogatorio e perciò eccezionale rispetto al modello generale delle procedure aperte e ristrette[2].

Accanto a questi valori, la p.a. è tenuta al rispetto dei principi di trasparenza e par condicio, che informano l’attività amministrativa, anche quando decida di condurre una gara ufficiosa, dando corso ad una valutazione comparativa delle offerte e tali criteri selettivi rappresentano non solo jus receptum nella giurisprudenza amministrativa, ma applicazione di un inderogabile principio di trasparenza amministrativa affermatosi sin dalle prime applicazioni della Legge n.241/1990, la cui inosservanza vizia irrimediabilmente l’azione della p.a.[3].

Stesse ragioni impediscono la modifica dei termini economici del contratto sottoscritto nel corso del suo svolgimento in quanto, così facendo, verrebbe del tutto vanificato lo scopo del meccanismo concorrenziale di scelta del contraente.

È di rilievo rimarcare che i valori comunitari della “concorrenza e della libertà di iniziativa economica”, intendono rimuovere le restrizioni all’ingresso di nuovi operatori sul mercato e richiedono una spinta verso la liberalizzazione delle attività e, al contempo, una limitazione delle posizioni dominanti[4] da parte di singoli soggetti, con ricadute sul territorio per l’implementazione dell’offerta a costi ridotti. Significativamente (per fare qualche esempio), il “rinnovo o la proroga automatica” delle concessioni di beni demaniali pone delle evidenti contraddizioni di libertà di stabilimento e di tutela della concorrenza[5], determinando una disparità di trattamento tra operatori economici dal momento che coloro che in precedenza non gestivano il demanio marittimo non hanno la possibilità, alla scadenza della concessione, di prendere il posto del vecchio gestore e al contempo impedisce l’ingresso di altri potenziali operatori economici nel mercato, ponendo barriere all’ingresso, tali da alterare la concorrenza[6].

In ambito della contrattualistica pubblica, queste posizioni escludono che ragioni locali impediscano la partecipazione di tutti i potenziali offerenti alle gare; prove evidenti di tali illegittime limitazione sono le clausole dei bandi di gara che richiedono la presenza di “centri cottura o centrali operative” nel territorio comunale per poter presentare le offerte: tali prescrizioni si appalesano irragionevoli e contrastano con i principi comunitari di massima tutela della concorrenza tra imprese, non sono utili ai fini della individuazione del miglior contraente, non sono giustificabili con addotte finalità di controllo dell’attività da parte dell’ente locale, oltre a violare i principi di economicità e di risparmio su scala aziendale, determinando un indubbio favoritismo per i pochi (o unici) soggetti che sono presenti in un preciso ambito territoriale[7].

Vi è, quindi, l’obbligo di disapplicazione delle norme interne (regionali) quando queste sono in contrasto con le norme di diritto europeo, come, ad esempio, eventuali limitazione delle distanze minime tra le rivendite di giornali; tali misure regolamentari confliggono con i principi di diritto europeo di libero stabilimento e di concorrenza tra imprese, ponendo restrizioni all’istituzione di nuove, ma anche alla loro mobilità sul territorio, d’altronde non vi è (in questa materia) la possibilità per i singoli Stati di derogare a tali principi con l’apposizione di vincoli di varia natura, atteso che il Trattato ne prevede la possibilità, ma solo per comprovati motivi di natura sanitaria o di ordine e sicurezza pubblica[8].

L’approdo impone che la contrattualistica pubblica debba rispettare le regole procedimentali poste a presidio della scelta del contraente privato, dovendo affermare che la concorrenza (uno dei cardini della normativa comunitaria) può essere garantita solo attraverso una procedura concorsuale tra più offerenti, la violazione del procedimento mina pertanto i principi di “buon andamento e imparzialità”, si pone come elemento sintomatico di elusione della disciplina cogente, riflettendo una condotta contraria ai principi di legalità e trasparenza.

Non può essere, pertanto, condivisibile un modello gestionale che giustifichi il mancato espletamento di una procedura concorsuale in ragione della specificità o dell’interesse perseguito, dovendo sempre rivolgere lo sguardo al fine ultimo dell’azione amministrativa (art.97 Cost.), consistente nel soddisfacimento di una esigenza generale e non circoscritta al singolo o alla singola materia.

A tal proposito, è da rilevare che se nei “settori speciali” si applica una particolare procedura rispetto a quella ordinaria classica, in funzione dell’importanza strategica per gli Stati membri, è pur vero che le ragioni dell’esclusione dettate a livello comunitario non impediscono di ritenere che tale squilibrio sia gradualmente affievolito, in linea con le politiche di liberalizzazione e armonizzazione comunitaria.

Il fondamento della deroga all’applicazione delle norme dettate per i settori ordinari va rinvenuto nell’esigenza di consentire procedure snelle ed elastiche in ragione della specificità dell’oggetto e degli interessi perseguiti, essendo la disciplina dei settori speciali caratterizzata da una minore rigidità rispetto a quella generale dei settori ordinari in quanto rispondente ad esigenze di semplificazione e modernizzazione.

Queste osservazioni inerenti i c.d. “settori esclusi”, non abrogano l’esigenza di una tutela della concorrenza[9], ma viceversa obbligano gli enti aggiudicatori, nella scelta discrezionale dell’elaborazione della disciplina di gara, ad effettuare una valutazione orientata coerentemente con i canoni di ragionevolezza, di proporzionalità e di congruità rispetto allo scopo, in modo da consentire la più ampia partecipazione alla gara e così garantire la concorrenza – nelle sue ricadute in termini di economicità ed efficacia dell’azione, il cui perseguimento è comunque di carattere precettivo e strumentale al corretto funzionamento del mercato cui la normativa comunitaria è orientata[10].

L’affidamento di un servizio a trattativa privata non può giustificarsi solo in virtù del possesso di una privativa industriale, atteso che questa può legittimare una limitazione concorrenziale solo se sia in grado di connotarsi in termini di esclusiva funzionale; e cioè se venga in rilievo un prodotto con caratteristiche tecniche infungibili, non surrogabili da tecnologie alternative in grado di assicurare le medesime funzionalità[11].

(Estratto, Trasparenza, concorrenza e trattativa privata, L’Ufficio tecnico, 2014, n.4)

 


[1] Infatti, l’esercizio della discrezionalità della stazione appaltante di non aggiudicare una procedura di evidenza pubblica postula la valutazione in concreto della convenienza dell’unica offerta tecnico – economica rimasta in gara, valutazione della quale la p.a. deve dar conto mediante un’adeguata motivazione, T.A.R. Piemonte, sez. II, 14 marzo 2014, n. 449.

[2] Non vi è quindi possibilità di interpretazione estensiva né di applicazione analogica, cfr. Cons. Stato, sez. V, 10 settembre 2009, n.5426.

[3] T.A.R. Lombardia – Milano, sez. I, 16 giugno 2010, n. 1853.

[4] Sul punto, la sezione I del Cons. Stato con la sentenza 20 dicembre 2010, n. 9306, ha precisato che l’impresa che detiene una posizione dominante sul mercato non può ridurre o eliminare il grado di concorrenza ancora esistente con comportamenti “escludenti”, non potendo garantire atti di tutela degli interessi commerciali dell’impresa dominante che abbiano lo scopo di rafforzare la posizione e di farne abuso.

[5] Cfr. la Direttiva Bolkenstein (direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 12 dicembre 2006 n. 2006/123/CE).

[6] Corte Cost., 4 luglio 2013, n. 171.

[7] T.A.R. Puglia – Bari, sez. I, 17 aprile 2012, n. 733 e 3 novembre 2009, n. 2602.

[8] Cons. Stato, sez. V, 9 aprile 2013, n. 1945.

[9] Cfr. l’art. 206, coordinato con l’art.31, del D.Lgs. 163/2006.

[10] T.A.R. Lazio, sez. II, 5 marzo 2014, n. 2550.

[11] Cons. Stato, sez. V, 2 novembre 2011, n. 5837.