«Libero Pensatore» (è tempo di agire)
Articolo Pubblicato il 7 Novembre, 2012

L’onnicomprensività del trattamento economico in ambito pubblico

Il principio di onnicomprensività del “trattamento economico” (in ambito pubblico) postula che non è possibile remunerare il dipendente con compensi ulteriori per lo svolgimento di compiti rientranti nelle mansioni dell’ufficio ricoperto ed è pertanto vietato alla P.A. di corrispondere compensi aggiuntivi per attività d’istituto [1].

L’onnicomprensività remunera completamente ogni incarico conferito al dipendente (dirigente compresi) in ragione dell’ufficio ricoperto o comunque collegato alla rappresentanza di interessi dell’Ente [2]: vige, pertanto, il divieto di percepire compensi in tutti i casi in cui l’attività svolta dall’impiegato sia riconducibile a funzioni e poteri connessi alla qualifica e/o all’ufficio ricoperto [3], corrispondenti a mansioni cui egli non possa sottrarsi perché rientranti nei normali compiti di servizio (e neppure l’Amministrazione potrebbe conferire e/o retribuire incarichi se previsti all’interno del profilo professionale) [4].

Milita in questa prospettiva il fatto che non sono ulteriormente retribuibili gli incarichi compresi nei compiti e doveri d’ufficio, in forza del principio di onnicomprensività del trattamento economico dei dirigenti statuito nel contratto collettivo, non potendo (ex post) incrementare il prefissato compenso contrattuale (anche per incarichi a termine) per raggiungimento di positive performance, già valutato (l’incremento) in sede di stipula del contratto individuale quale indennità di risultato [5].

La struttura della “retribuzione” risente di questo carattere “vincolato” (precostituito) atteso che in aggiunta alla “retribuzione di posizione e di risultato”, ai dirigenti possono essere erogati direttamente, a titolo di “retribuzione di risultato”, solo i compensi previsti da specifiche disposizioni di legge, come espressamente recepite nelle vigenti disposizioni della contrattazione collettiva nazionale e secondo le modalità da queste stabilite, precisando che ogni singola Amministrazione definisce l’incidenza delle suddette “erogazioni aggiuntive” sull’ammontare della retribuzione di risultato sulla base criteri generali oggetto di previa concertazione sindacale (viene procedimentalizzato il percorso della contrattazione) [6].

L’approdo complessivo di eventuali compensi “extra” confluisce inevitabilmente nell’ambito delle componenti del salario “accessorio” (indennità di posizione e/o di risultato) [7] che di conseguenza vanno graduate – in ragione della complessità e dell’importanza della prestazione richiesta – rispetto al trattamento fondamentale “di base” [8].

Per altri versi e in funzione di un principio costituzionale enunciato nell’articolo 36 della Costituzione [9], la retribuzione può variare in funzione delle responsabilità, del bilanciamento tra prestazione richiesta e risultato atteso (il sinallagma), tra una negoziazione generale (collettiva) e una posizione individuale (non ritraibili), in aderenza al singolo profilo ricoperto: una giusta retribuzione che risponda a criteri di proporzionalità e sufficienza “ai fini di assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa” [10].

Si può desumere che il trattamento economico remunera tutte le funzioni ed i compiti attribuiti al personale dipendente (alias ai dirigenti) dal contratto di lavoro, nonché qualsiasi incarico ad esso conferito in ragione del loro ufficio o comunque conferito dall’Amministrazione pubblica (datore di lavoro) presso cui presta servizio o su designazione della stessa (o di terzi) [11], rilevando che gli incarichi che non rientrano in alcun modo nelle funzioni assegnate sono remunerati dalla retribuzione contrattualmente stabilita non già a parte [12], con la sola possibilità (per il dirigente), di non accettarne il conferimento (e questa evenienza conferma la non obbligatorietà della prestazione se è ammissibile la rinuncia) [13].

Le diffuse argomentazioni svolte consentono di rilevare che con l’art. 24 del D.Lgs. n. 165/2001 (TUPI) il legislatore ha inteso porre una regola di carattere assolutamente generale che fosse congruente con l’avvenuta attribuzione alla fonte negoziale (C.C.N.L.) della riserva di disciplina della retribuzione del personale con qualifica dirigenziale, di talché la sua nuova conformazione composita risultasse esaustiva di ogni possibile spettanza connessa all’esercizio delle relative funzioni.

La ratio restrittiva della norma è di immediata percezione, ed altrettanto chiara si presenta la valenza interpretativo e/o applicativa della stessa, rispetto ad altre disposizioni previgenti o successive che rechino indicazioni con essa contrastanti: quest’ultime devono essere lette (rilette) in modo conforme al nuovo principio di onnicomprensività, sollevando ove ritenuto necessario appositi quesiti presso l’A.R.A.N. o il Dipartimento della Funzione pubblica: un aspetto centrale della riforma della dirigenza (e dei meccanismi retributivi della stessa) sono il rafforzamento del concetto e del contenuto della funzione, intesa come specifica sfera di attribuzioni e poteri propri del singolo dirigente in relazione al settore di appartenenza [14].

Nel descritto quadro normativo, pertanto, non v’è spazio per emolumenti ulteriori se non nei casi espressamente indicati dal contratto collettivo con il precipitato che una pretesa retributiva sganciata dal rapporto di lavoro è stata ritenuta ammissibile soltanto qualora l’attività posta in essere dal dipendente non fosse per ipotesi riconducibile alla qualifica dallo stesso assunta nell’apparato amministrativo, o, laddove richiesta e retribuita dall’Amministrazione a titolo professionale, soltanto se “ne ricorrano i presupposti legali” e detti incarichi “non costituiscano comunque espletamento di compiti d’istituto” [15].

(Estratto LexItalia, 2012, n.11)