«Libero Pensatore» (è tempo di agire)
Articolo Pubblicato il 29 Aprile, 2023

Effetti plurimi e distorti dell’esperienza infedele

Effetti plurimi e distorti dell’esperienza infedele

La formazione del dipendente pubblico prevede un ciclo minimo e periodico di incontri per affrontare (educare) una materia centrale nella condotta (modus operandi) di tutti coloro che svolgono una funzione pubblica (ex art. 54, comma 2, Cost.), al fine di cementare il senso etico, ovvero quell’attitudine di amministrare “beni” appartenenti alla collettività (pubblici) senza incorrere in interessi secondari (amicali/personali), con uno scopo (la finalizzazione espressa dell’art. 97 Cost.: «il buon andamento e l’imparzialità») di assicurare il soddisfacimento dell’interesse generale: una neutralità rispetto all’oggetto della prestazione.

In effetti, la violazione del c.d. minimo etico è da rinvenire non (solo) nella violazione di prescrizioni specifiche, di natura tecnico-operativa descritte nel codice di comportamento, ma in quelle modalità di prestare il proprio lavoro nel contesto delle regole dell’azione amministrativa, ancorata a principi di solidarietà del c.d. valore pubblico, dove la persona opera principalmente al servizio delle Istituzioni (ex art. 98 Cost.) senza riserva.

La violazione di questi precetti disseminati in più fonti, ma già presenti nel testo costituzionale, si presenta quando la persona che, presta le proprie energie per il datore pubblico, si rende inadempiente ai generali obblighi di diligenza, correttezza e buona fede previsti (in primis) dal codice civile, anche in relazione al ruolo rivestito, ma soprattutto viene meno alla sua funzione elettiva di operare per la Comunità, non percependo quelle elementari esigenze di astensione a fronte di interessi (in conflitto) non conciliabili con la posizione (di terzietà) ricoperta.

L’etica pubblica, già risalente alla polis greca teorizzata nei modi più diversi dai sofisti, riaccende continuamente il dibattito pubblico, occupando spazi valoriali sempre più estesi, impegnando la produzione di norme, a volte partorite in territori lontani (non nazionali), pensando che la soluzione sia sempre quella di normare le norme, definendo divieti e permessi, sapendo (in certi casi, in modo inconsapevole o nell’intimo legiferare) della loro inutilità a governare la condotta umana, dove più della legge può l’esempio: quel modo di pretendere dagli altri, giustificando le libertà di se stessi (armonia tutta dell’Italietta nostrana).

Le innesti del diritto

Un evidente esercizio della funzione non bilanciato dall’equilibrio dei doveri imposti, dove la “cultura” dovrebbe fare la differenza mentre nell’agire concreto, alla sostanza si antepone la forma, quella regola fatta da misure di prevenzione della corruzione e della trasparenza, da riforme delle riforme, da Piani anticorruzione (PTPCT) inseriti nelle semplificazioni del PNRR (il PIAO), composti di migliaia pagine, incapaci di rispondere (nella moltitudine dei controlli e dei caricamenti di salvifiche piattaforme on line) ai bisogni effettivi (nel senso dichiarato nei “preamboli” delle norme o nei “considerando”).

Non volendo, peraltro, soffermarci sulla riscrittura del Codice dei contratti, ove la partecipazione dei rappresentanti del “popolo sovrano” risente intimamente di una redazione al di fuori delle stanze del potere elettivo, tutta incentrata sulle mani dei sacerdoti del diritto, assunti simultaneamente ad estensori, normatori e giudici, in un condensato di poteri non diversi, anteposti agli insegnamenti, da Locke alla moderna teoria di Montesquieu, «perché non si possa abusare del potere occorre che il potere arresti il potere» (senza pretendere di citare il “verbo” o il “verso”).

Più del pratico

L’analisi del caso si presta a queste considerazioni, dove l’etica pubblica dovrebbe impedire l’evento causativo del danno nell’attività concreta di gestione dell’azione amministrativa, dove i precetti incontrano i limiti della condotta umana.

Va aggiunto che la presenza del danno, può essere (anche) presente quando non siano assolte le ordinarie attività, ove è sempre richiesto dare riscontro alle istanze (ex art. 2 della legge n. 241/1990), in ragione delle competenze gestorie di coloro che sono titolari della competenza: un evidente caso di negligenza nell’emissione di un atto doveroso[1].

Infatti, il ritardo e il connesso pagamento risarcitorio della PA causativo di un danno indiretto, consente (si ammette) la rivalsa ogni qual volta vi sia stato un esborso definitivo di denaro pubblico derivante da sentenza esecutiva passata in giudicato, in quanto qualsiasi esborso di denaro proveniente dalle casse pubbliche, deve essere reintegrato da parte del responsabile.

Ne deriva che nei confronti dell’interessato (responsabile) vi sia una condanna erariale per i danni causati dal ritardo nell’adempiere, omettendo qualsivoglia doveroso riscontro alle istanze provenienti da terzi (o da coloro che richiedono una prestazione dovuta), a nulla rilevando le vicende personali (del dipendente) che non esimono gli uffici dall’espletamento dei propri compiti istituzionali, né i cambi di amministrazione, invero, in nome della necessaria continuità dell’azione amministrativa, non possono essere invocati come valida esimente per l’applicazione di ordinarie competenze, specie in presenza di un’attività vincolata[2].

Il caso

La sez. giur. Marche, con la sentenza n. 13 del 12 aprile 2023, espone in chiaro la violazione delle elementari condizioni di condotta che non può assumere colui che esercita una prestazione lavorativa nella PA, indicando (nel concreto) modalità che devono essere “attenzionate” affinché si possano adottare misure di prevenzione per ridurre il ripetersi di fenomeni di dispersione del senso comune di “fedeltà” (ex 2015 c.c.), quel carattere cogente che deve animare nel concreto la natura e la qualità del rapporto tra le posizioni delle parti (lavoratore e datore di lavoro), segnando il grado di affidabilità richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente pubblico[3].

Analizzando l’azione di responsabilità amministrativa, vengono indicate una pluralità di condotte illecite, e di converso l’esigenza costante di effettuare un’azione di controllo e monitoraggio proprio con l’intento di far emergere un uso anomalo (distorto) del potere e apprestare (di conseguenza) gli strumenti idonei ad evitare la colpa grave: una diligenza nel condurre l’azione amministrativa, specie ove la complessità richiede una cautela superiore imponendo, in caso di incertezza sull’estensione delle norme, l’astensione in presenza di particolari “colleganze”…

Breve finale

La vicenda descritta nella sua interezza (a volte nella crudezza dei fatti) si presta a rifluire nell’alterazione del prestigio e della personalità dello Stato-Amministrazione, ossia della Pubblica Amministrazione, in presenza di comportamenti tenuti in violazione di quelle basilari regole di condotta che trovano fondamento in una nutrita schiera di principi costituzionali, anche solo volendo citare l’art. 97 Cost., ossia in dispregio delle funzioni e responsabilità in materia di organizzazione pubblica non ritraibile.

Si dice che vi sia una lesione del bene giuridico consistente nel “buon andamento” della Pubblica Amministrazione che, a causa della condotta illecita dei suoi dipendenti, perde credibilità ed affidabilità all’esterno, ingenerandosi la convinzione che tale comportamento patologico sia una caratteristica usuale dell’attività dell’Ente pubblico, o dei suoi rappresentanti (la c.d. la moralità delle istituzioni), senza distinzioni di ruoli, esponendo – in relazione al clamore suscitato – una radice di profondo malessere che inevitabilmente allontana i cittadini dal “giusto” delle Istituzioni, rispondendo (in una lettura riduttiva) alla specchiatissima astensione (al voto) nel convincimento che nulla può cambiare (anche se è pur sempre possibile).

(estratto, LexItalia.it, n. 4, 28 aprile 2023)

[1] TAR Sicilia, Catania, sez. II, 11 aprile 2023, n. 1181.

[2] Corte conti, sez. giur. Centrale Appello, sez. I, 22 marzo 2023, n. 118.

[3] Il lavoratore, in generale (anche nel pubblico), deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dall’art. 2105 c.c., ma anche da tutti quelli che, per la loro natura e le loro conseguenze, appaiono in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o creano situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della stessa o sono comunque idonei a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto stesso, Corte d’Appello Milano, sez. lavoro, 23 settembre 2022.