«Libero Pensatore» (è tempo di agire)
Articolo Pubblicato il 28 Agosto, 2018

Impronte digitali e microchip per la riforma della PA

Impronte digitali e microchip per la riforma della PA

Prospettive futuribili e visionarie per un dibattito pubblico sull’ipotesi di riforma, prima della fine d’estate (diritto di cronaca o libertà di pensiero, ex art. 21 Cost, comma 1)

Si legge, nella stampa nazionale, che si intende imporre le “impronte digitali contro i furbetti del cartellino”, arginare un “un fenomeno odioso”.

L’iniziativa è certamente lodevole, rientra pienamente nella discrezionalità del legislatore; tuttavia qualche osservazione o perplessità è pur sempre possibile.

Sono previsti anche sopralluoghi a sorpresa”, come quando si faceva il servizio di leva; ma erano altri tempi, altre suggestioni che si vorrebbero rivivere.

Nostalgici (o fuori del tempo).

In verità, tali forme di controllo sono già presenti; anche in molti Piani Triennali di Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza, quale “misure” di prevenzione della cattiva amministrazione.

Si prevede l’obbligo di sistemi di rilevazione biometrica delle presenze perché sono compatibili con la “legge sulla Privacy”.

Questo è importante: la diffusione dei dati sensibili non è mai un rischio (Cambridge Analytica è un caso isolato e unico).

Si tratta di comprendere il significato di “Privacy”, se sia plausibile acquisire dati biometrici, quali le impronte digitali o l’iride, oppure, andando oltre lo stesso deoxyribonucleic acid (comunemente detto DNA), quale massima espressione dell’identificazione del genere umano e delle sue informazioni genetiche (il «dato genetico» è pur sempre un dato personale che fornisce informazioni univoche sulla fisiologia o sulla salute della persona fisica, e che risultano in particolare dall’analisi di un campione biologico della stessa).

Tali insieme di dati sarebbero utili per comprendere la predisposizione al rispetto delle regole (c.d. principio di legalità); e, ovviamente, alla presenza in ufficio del dipendente pubblico: è a questo che serve la biometria e la genetica (dicunt).

Si allarga la previsione, sempre dalle indicazioni della stampa nazionale (dopo la pausa estiva), al riconoscimento mediante acquisizione dei dati personali, come la voce e/o l’immagine, ovvero, come dicono alcuni, mediante la virtualizzazione dell’“io”, massima espressione della coscienza umana (cogito ergo sum, CARTESIO): tutti sistemi tecnologici di verifica delle presenze infallibili, in grado di dare in tempo reale le presenze presso gli uffici pubblici, senza il rischio di sostituzione di persona o di assenti.

Si affronta, a ben vedere e con uno spunto di riflessione futuribile (se ancora è lecito il diritto di critica, in chiave collaborativa e partecipativa, c.d. débat public), una riforma epocale, utilizzando gli strumenti della cibernetica, in piena aderenza con le «Tre leggi della robotica» formulate da ASIMOV, che, seppur datate (pubblicate per la prima volta nel 1942 nel racconto “Circolo vizioso”, e durante la guerra mondiale), si presentano nella loro dimensione epocale di command and control: affronteremo, senza ripari, alle soglie delle porte della PA la presenza di tornelli ipertecnologici, in grado di registrare le presenze: effetti visivi di controllo anticipato del crimine, già conosciuto in «Minority Report» diretto da SPIELBERG in chiave di prevenzione delle presenze/assenze (il paragone potrebbe anche coincidere).

È chiaro che questa nuova visione del controllo deve essere coerente con la complicance del General Data Protection Regulation (GDPR), dove la protezione dei dati personali è legata al profilo dei diritti e delle libertà fondamentali.

Il trattamento di dati biometrici, secondo le indicazioni del Regolamento comunitario n. 679/2016 (ex art. 4, comma 1, punto 14): «dati biometrici»: i dati personali ottenuti da un trattamento tecnico specifico relativi alle caratteristiche fisiche, fisiologiche o comportamentali di una persona fisica che ne consentono o confermano l’identificazione univoca, quali l’immagine facciale o i dati dattiloscopici»), dovrebbero essere utilizzati a fronte di una esigenza “indilazionabile” di identificazione o autenticazione univoca di una persona fisica: in casi eccezionali e limitati (dicono nella ratio, non come regola ordinaria).

Tali dati personali non dovrebbero essere oggetto di trattamento, a meno di una forte giustificazione motivazionale, coerente con il Regolamento comunitario, tenendo conto che l’acquisizione di tali dati dovrebbe essere legata ad un compito di interesse pubblico o per l’esercizio di pubblici poteri collegati ad “esigenze strategiche e di sicurezza nazionale” (tanto per rendere il concetto).

Ma con una legge tutto è possibile, a tutti è noto: anche, con una c.d. “leggina”, o un piccolo emendamento all’ultimo minuto (giammai un voto di fiducia).

In effetti, il Garante Privacy sui sistemi di controllo degli accessi “biometrico facciale” (doc. web n. 6136705, Registro dei provvedimenti n. 60 del 16 febbraio 2017) e sui sistemi biometrici basato sul “trattamento di impronte digitali” per finalità di rilevazione delle presenze dei dipendenti (doc. web n. 4948405, Registro dei provvedimenti n. 129 del 17 marzo 2016) chiariva l’esigenza di giustificare puntualmente le ragioni di sicurezza sottese a tale metodo “particolare” di rilevazione presenze.

Forse, c’entra qualcosa con i diritti di libertà (forse, sarebbe anche intuibile) ?.

Il Garante per la tutela dei dati personali precisò che la raccolta e la registrazione di dati biometrici dei lavoratori dipendenti, ricavati dalle caratteristiche fisiche o comportamentali della persona, deve essere valutata sul piano della conformità ai princìpi di necessità, proporzionalità, finalità e correttezza, tenendo conto della peculiarità dell’attività svolta: un bilanciamento tra prestazione lavorativa, controllo presenze, tutela delle libertà individuali.

Si dice che lo scopo di queste acquisizioni biometriche sarebbe quello di scoprire le condotte sleali ma anche di verificare, attraverso la ricognizione di quelle realtà, la causa dei principali elementi di debolezza della Pubblica Amministrazione: le ragioni sono condivisibili e giuste.

L’impronta digitale permetterebbe, anche, di evitare di scambiare i badge identificativi, risolvendo i gravi problemi della PA: l’assenteismo.

Se allora risultasse legittimo, e se il Governo ritenesse di continuare su questa strada, ritenendo questa metodologia una soluzione appropriata, garante della dignità dei lavoratori, capace di sconfiggere l’assenteismo, non invasiva, non sarebbe (dicono i più informati) più conveniente, anche per ragioni economiche e di opportunità (attinente al merito), inserire anche un microchip sottocutaneo (nel rispetto della salute dell’interessato, ex comma 2, dell’art. 32 Cost., «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana»).

È pur vero che il “bracciale elettronico” è utilizzato per controllare la presenza, suggeriscono altri; poco importa se l’art. 13 Cost., al primo comma, prevede che «La libertà personale è inviolabile» quando l’art. 16, al primo comma, prevede che «Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza»: questo sarebbe un caso tipico di limitazione per ragioni di sicurezza (cfr., sul fondamento di una prognosi di pericolosità della condotta, Corte Cost., 26 ottobre 1980, n. 177): saremmo così sicuri della presenza in servizio (o no!?).

Non si tratterebbe, guardando la luna o il dito, di una violazione dei diritti della personalità umana se al fondo si fa rientrare il microchip nell’attività sia di miglioramento della PA (ex ante) che di prevenzione dei reati (ex post); non inciderebbe sul riconoscimento dei tradizionali diritti di habeas corpus (cfr. il bilanciamento, Cost. Corte, 3 luglio 1956, n. 11) nell’ambito del principio di stretta legalità (!?).

Ci sarebbe la copertura giuridica della riforma (la c.d. fonte primaria), senza incorrere in una illegittimità costituzionale della misura di prevenzione, in quanto presumibilmente limitativa della libertà personale, essendo necessariamente subordinata all’osservanza del citato principio di legalità codificato nella riforma.

In ogni caso, a scanso di equivoci, si potrebbe chiedere un parere scritto al “Garante sulla sicurezza nazionale e della salute pubblica del dipendente pubblico”, semmai esistesse (potrebbe essere l’occasione).

Attraverso il microchip si potrebbe risolvere efficacemente la presenza e gli spostamenti in servizio (anche quando usa l’auto), ridurre i tempi di registrazione delle entrate, sapere in ogni momento dove il dipendente svolge la propria prestazione e sanzionare se la stessa non viene svolta nella sede di assegnazione.

Non sarebbe propriamente un controllo a distanza (cfr. Cass. Pen., sez. III, 24 agosto 2018, n. 38882 e sentenza 22148/2017), verrebbe impiegato esclusivamente «per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro» (un c.d. controllo difensivo; sul punto, Garante per la protezione dei dati personali, «Verifica preliminare. Sistema di videosorveglianza c.d. intelligente presso un edificio sede di un’amministrazione pubblica, per finalità di sicurezza e tutela del patrimonio – 10 novembre 2016», doc. web n. 5796716, Registro dei provvedimenti n. 475 del 10 novembre 2016).

Una vision in chiave di tutela e prevenzione della maladministration, nonché di sicurezza sulla stabilità (nel senso di presenza) del posto di lavoro.

Si potrebbe, anche, prescindere da ogni accordo, modificando l’art. 4 della legge n. 300/1970, con un nuovo c.d. Jobs Act; anche questa non sarebbe altro che una riforma digitale: ci sarebbe del tecnologico.

Attraverso il microchip si potrebbero acquisire ulteriori notizie sul dipendente, per esempio: avere sempre on line lo stato di servizio, l’iter dei procedimenti istruttori eseguiti, il tempo dedicato al proprio lavoro, garantendo un FOIA (Freedom of Information Act) totale.

In termini diversi, sarebbe un utile strumento di misurazione della performance, risolvendo l’annosa questione degli indicatori di produttività (l’input, l’output, l’outcome) e finalmente avremmo un sistema di misurazione oggettivo del “Ciclo della performance”, magari connettendo il microchip con una rete wireless avremmo in tempi reali la customer satisfaction sul gradimento dei cittadini, ai servizi della PA e un giudizio diretto sul singolo dipendente: una vera e universal democrazia partecipata!.

Attraverso il microchip si potrebbero collegare (dicono che la sperimentazione sia a un livello avanzato, la IA è già presente in molti processi di produzione e controllo, ad es. SIRI, Google Now; Gooble Maps) le sinapsi neurali alle banche dati aperte fornite dalle PA, con evidenti tecniche big data ai sensi degli art. 7 e 9 bis del D.Lgs. n. 33/2013, aumentando la qualità della prestazione individuale e organizzativa (c.d. produttività), efficientando l’azione amministrativa, in linea con i principi di sana gestione economico – finanziaria (it’s much cheaper!), ai sensi dell’art. 1 della Legge n. 241/1990: un collegamento tra IA (Intelligenza Artificiale) e HI (Human Intelligence): l’avveramento «The (public) Matrix».

Non è, forse, per questo che sono incluse nella riforma le competenze digitali (c.d. digital skills richiamate in relazione al mondo del lavoro o al c.d. digital gap in ambito più professionale) ?.

Tutto questo con un semplice microchip, senza costi per la PA, potendo sponsorizzare (ex art. 19 del D.Lgs. n. 50/2016, cfr. Corte di Cassazione, sentenza n. 5086 del 21 maggio 1998) l’impianto sottocutaneo mediante l’inserimento subliminale di messaggi promozionali, tra la trasmissione di un bip e l’altro, compresi dei messaggi sul rispetto della presenza in servizio (comunque, il sistema potrebbe essere sostituito da un one app).

Altri, interessati alla questione di una nuova startup, pretenderebbero utilizzare il medesimo sistema delle impronte digitali o scanner facciali per verificare le votazioni e/o la presenza dei Parlamentari, con lo scopo nobile di aumentare i follower rispetto a quelli dichiarati (spesso taroccati, cfr. Corriere.it, 29 gennaio 2018), sempre senza compromettere (non sono lecite le pressioni) la “libertà di mandato” o il “divieto di mandato imperativo”, ex art. 67 Cost. «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato».

Pausa (pranzo o permesso).

Oggi, si chiede di estendere a tutti i dipendenti pubblici l’identificazione mediante l’acquisizione dei dati biometrici per ragioni di legalità, per combattere il malcostume; domani, si chiederà la schedatura totale o con sistemi GPS per controllarne i movimenti; poi, si chiederà di monitorare tutta la popolazione per ragioni della loro sicurezza e altro ancora (non è un caso che si copra il mondo di telecamere, e poi – quando servono – non ci sono o sono spente, gli esempi non mancano).

Si parla, quindi, di malcostume, e il malcostume non si combatte con nuove leggi, con nuove riforme, con nuovi sistemi di controllo delle presenze: la questione va affrontata con altri mezzi, con altre soluzioni meno invasive e più garanti della dignità della persona, come hanno dimostrato le molteplici indagini della magistratura.

È troppo facile e riduttivo pensare di risolvere la penosa questione dei mali della PA con continue riforme della dirigenza, del lavoro pubblico, delle presenze senza risolvere i veri problemi della PA: una ipertrofica produzione normativa, una ipertrofica costituzione di Autorità di controllo – garanzia – indipendenti, una ipertrofica serie di inutili adempimenti formali: la sostanza è altra e i fatti lo dimostrano inesorabilmente.

Direbbero, tante leggi e tanti controlli; tante riforme riformate da riformare ancora una volta.

Dicono, tutto inutile se i cittadini “muoiono” senza colpa, se si continua a invocare il “Governo dei Burocrati” per questo modo di intendere l’Amministrazione pubblica in continua ricerca della giusta riforma, se si dimentica che «I pubblici impiegati sono», pur sempre, «al servizio esclusivo della Nazione» (ex art. 98 Cost.).

L’Amministrazione pubblica dovrebbe perseguire il bene comune, dovrebbe perseguire gli interessi collettivi, dovrebbe perseguire l’interesse pubblico.

Abbiamo bisogno di questa riforma delle impronte digitali o dello scanner dell’iride o del riconoscimento vocale, della misurazione della performance, della digitalizzazione?.

Si direbbe di sì! Adesso fuori del tunnel.

Abbiamo proprio bisogno di un nuovo “Piano triennale delle azioni concrete per l’efficienza delle pubbliche amministrazioni”, con tutti i piani triennali già presenti (una sintesi di quelli già esistenti):

  • della performance;
  • del personale e delle eccedenze;
  • degli incarichi e delle consulenze;
  • della corruzione e della trasparenza;
  • dei lavori servizi e forniture;
  • delle azioni positive;
  • della comunicazione;
  • della formazione;
  • dell’informatica;
  • dei controlli successivi di regolarità amministrativa;
  • dei pagamenti;
  • degli indicatori di bilancio;
  • della sicurezza informatica e dei luoghi di lavoro.

Ma quante leggi ancora ?.

Abbiamo bisogno ancora di invocare riforme (che alcuni definiscono populiste) per garantire la continuità della funzione pubblica, o forse non sarebbe il caso di rammentare che le norme già esistono e vanno applicate.

Il mondo è cambiato, c’è il bisogno di garanzie, l’Europa ci chiede stabilità (ma ci toglie sovranità): non siamo in una “REPUBBLICA DELLE BANANE”!.

Dissero, «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi», TANCREDI, in Il Gattopardo, TOMASI DI LAMPEDUSA.

Intermezzo (brunch).

Poi assistiamo ad affidamenti diretti (senza concorrenza), a proroghe notturne (milionarie), ad incarichi fiduciari (do ut des), a leggi ad cognatum, a promozioni amicali, al caso Ilva, senza battere ciglia.

Certo. Questa riforma è importante e non va sottovalutata, gli “infedeli o furbetti” vanno perseguiti, anche se i problemi sono altrove.

Forse investire in cultura, in etica pubblica, arginare i continui conflitti di interessi potrebbe essere la cura?.

L’aumento delle leggi è un evidente sintomo della corruzione del sistema: «L’ordinamento pubblico della città è stato corrotto dall’accumularsi di tante leggi» MARCO TULLIO CICERONE, nell’analisi di PAGANO, Il mito “delle Dodici Tavole”: le leggi poche e chiare, 1768.

Ma questa è un’altra storia.