Riforma del pubblico impiego
Dalla legge delega in materia di “riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche” (legge 7 agosto 2015, n. 124, c.d. “riforma Madia”) sono stati partoriti due decreti legislativi, uno di riforma del pubblico impiego, con il decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 75 (incidendo sul d.lgs. n. 165/2001, c.d. TUPI), l’altro di riforma delle valutazioni della performance dei dipendenti pubblici, con il decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 74 (incidendo sul d.lgs. n. 150/2009, c.d. “riforma Brunetta”), con l’intento di riformare il pubblico impiego, semplificare le norme, valorizzare la dirigenza e il merito, consentire il licenziamento dei soggetti inadeguati, premiare il risultato, garantire la partecipazione del cittadino ai processi di valutazione.
Ovviamente, per rispettare il pareggio finanziario e il principio contabile (ex art. 97 Cost. “Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico”) tutta la “riforma per pubblico impiego” avviene ad invarianza di spesa, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, che già di per sé è una disposizione che si pone al di fuori di ogni logica di riforma, essendo noto che le riforme a costo zero non possono esistere per evidenti motivi strutturali, necessitando di investimenti in risorse economiche, tecnologiche, umane, fosse solo per garantire un minimo di formazione al personale dipendente.
La regola costituzionale della necessità del pubblico concorso per l’accesso alle pubbliche amministrazioni va rispettata anche da parte di disposizioni che regolano il passaggio da soggetti privati ad Enti pubblici: il principio dettato dall’art. 97 Cost. può consentire la previsione di condizioni di accesso intese a consolidare pregresse esperienze lavorative maturate nella stessa amministrazione, a condizione, tuttavia, che l’area delle eccezioni alla regola del concorso sia rigorosamente delimitata e non si risolva in una indiscriminata e non previamente verificata immissione in ruolo di personale esterno attinto da bacini predeterminati.
Voler, quindi, uniformare il lavoro pubblico con quello privato nella scelta dei vertici dirigenziali a chiamata o con procedure selettive sui titoli o su base “fiduciaria”, in forza di un concetto suggestivo di “rotazione” della professionalità o di una forma nostrana di spoils system, significa non comprendere che non sussiste una assimilazione del rapporto di lavoro pubblico con quello privato, le differenze sono sostanziali e rendono le due situazioni non omogenee, in quanto il processo di omogeneizzazione incontra il limite “della specialità del rapporto e delle esigenze del perseguimento degli interessi generali”.
Quello che non dice la riforma
Manca essenzialmente di affrontare:
- il tema e le relazioni di questo rapporto instabile della dirigenza “a chiamata”, rimuovibile se non “gradita” o “funzionale”, con riflessi diretti sulla credibilità e l’immagine pubblica, indebolendone il ruolo primario al servizio del bene comune;
- una durata ragionevole dell’incarico, evitando una eccessiva precarizzazione del rapporto di lavoro, consentendo al dirigente di perseguire, con continuità, gli obiettivi posti;
- una responsabilità dirigenziale fondata sull’effettivo mancato raggiungimento degli obiettivi al fine di evitare forme “mascherate” di spoils system e non giustificate protrazioni degli incarichi dirigenziali;
- il reintegro spinto del centralismo a discapito del policentrismo istituzionale e del riconoscimento delle Autonomie Locali;
- la delegificazione delle norme rispetto al rafforzamento del rapporto negoziale in chiave privatistica;
- la mancanza di una effettiva tutela dall’ingerenza (le c.d. pressioni indebite) degli organi elettivi sulla gestione, evitando che la politica si sovrapponga, in funzione di controllo, all’amministrazione;
- una reale valutazione della responsabilità dirigenziale, rispetto agli obiettivi programmati e possibili nell’esecuzione di un’attività che presenta fattori di complessità e di interessi pubblici compenetrati con quelli privati, svilendo il merito con meccanismi valutativi abnormi;
- la costruzione di un modello composito di regolazione dei rapporti tra “politica e amministrazione”, dove – a Costituzione invariata – si delinea una relazione tra organi politici e dirigenziali che si struttura secondo la logica non della separazione o sovrapposizione delle funzioni ma secondo quella della complementarietà e differenziazione funzionale dei compiti: i politici e i dirigenti esercitano un’attività diversa ma coordinata verso risultati comuni (il c.d. interesse pubblico);
- il grado di giustificare l’efficienza a discapito della legalità e delle regole procedimentali, ritenendo che nel pubblico il perseguimento dell’interesse deve concorrere con il giusto procedimento, non potendo utilizzare de plano strumenti civilistici per assolvere utilità pubbliche (il dirigente ha una condotta vincolata nel fine e nei mezzi);
- la sostenibilità di una serie di adempimenti e informazioni (monitoraggi, implementazioni di banche dati, iscrizioni a portali on line) che appesantiscono le relazioni rispetto ai benefici dichiarati;
- la definizione di criteri generali e comparativi per l’accesso all’impiego, senza il ricorso alle c.d. linee guida (soft law), e in ogni caso l’istaurazione di un “trasparente” sistema di reclutamento che dia contezza delle valutazioni comparative in modo oggettivo, per quanto possibile slegate dall’elemento fiduciario (inteso come condivisione dell’operato politico).
La riforma non affronta il nodo della dirigenza e la distinzione tra “dirigenza politica” e “dirigenza tecnica” (ovvero, tra dirigente dipendente pubblico, assunto con concorso e titolo abilitativo, e dirigente libero professionista, da altri definito manager pubblico o direttore generale, assunto per chiamata o “meriti sul campo o meriti speciali”) che era alla base della legge delega, nemmeno il sistema di reclutamento e la stabilità del rapporto rispetto ai risultati perseguiti e perseguibili, evitando un vulnus alla stessa funzione ricoperta del dirigente quando si ammetterebbe ex se un termine di cessazione del rapporto, a discapito della professionalità e della continuità dell’agire pubblico, salvo un periodo di messa in disponibilità (senza incarico) in attesa di altra destinazione o semplicemente del licenziamento (ad nutum), senza la garanzia di poter svolgere le mansioni per le quali è stato assunto (ex art. 2013 c.c.).
Va aggiunto che, già in sede di riforma, la graduale riduzione programmata del numero complessivo dei dirigenti interni ha destato non qualche perplessità sulla sua compatibilità costituzionale, prefigurando una selezione in assenza di parametri di riferimento e motivazione.
È necessario valorizzare, si disse in sede normativa di consultazione della riforma della dirigenza, e si era nel vero, che il principio di “imparzialità” (ex art. 97 Cost., comma 1) e quello, ad esso connesso, del concorso pubblico per l’acquisizione della qualifica dirigenziale (ex art. 97 Cost., comma 3), non dovrebbe prevedere una “aprioristica riserva” di posti non giustificata dall’effettiva mancanza di professionalità interne, riferendo che la legge delega n. 124 del 2015 intendeva costituire una dirigenza pubblica fortemente qualificata e competente, con carriere ispirate alla trasparente selezione, valutazione e progressione anziché a legami di solidarietà politica, garantendo i cittadini ed i governi di ogni colore politico, rappresentando l’ossatura di amministrazioni pubbliche dove si perseguono interessi di tutti e non di una o poche parti.
I risultati della precitata riforma (non avvenuta) si sono palesati nel c.d. “mercato della dirigenza” e nei rilievi del Consiglio di Stato, quando precisa che taluni profili portano all’oggettiva “impossibilità di funzionamento di taluni meccanismi che presiedono alla nuova disciplina” che potrebbero, “in via circolare, ripercuotersi negativamente sulla stessa legittimità delle previsioni normative. Se, infatti, queste ultime, nella regolazione del rapporto di lavoro dirigenziale, devono essere conformi ai principi costituzionali, la loro possibile inattuazione si potrebbe risolvere in una violazione delle stesse disposizioni costituzionali, oltre che dei principi e dei criteri della legge delega”.
La dirigenza a chiamata
Una dirigenza a chiamata che sia aderente alle indicazioni del vertice elettivo non trova, con l’attuale sistema ordinamentale, compatibilità costituzionale e lo spoils system con i meccanismi di decadenza automatica sono ritenuti compatibili con l’art. 97 Cost., esclusivamente ove riferiti ad addetti ad uffici di diretta collaborazione con l’organo di governo o a figure apicali (secondo il principio simul stabunt, simul cadunt), in relazione alla necessità per l’organo elettivo di assicurare una migliore fluidità e correttezza di rapporti con i diretti collaboratori, quali sono i dirigenti apicali e, ovviamente, il personale di staff o di gabinetto, funzionali allo stesso miglior andamento dell’attività amministrativa.
La scelta intuitu personae, senza predeterminazione di alcun rigido criterio che debba essere osservato nell’adozione dell’atto di assegnazione all’ufficio di staff comporta simmetricamente la possibilità, in qualunque momento, di interrompere il rapporto in corso qualora sia venuta meno la fiducia che deve caratterizzare, in maniera costante, lo svolgimento del rapporto stesso: questo non è possibile per una dirigenza professionale assunta per concorso.
Allora si dovrebbe chiarire definitivamente che la dirigenza tecnica è ontologicamente diversa dalla dirigenza politica, una non celata diversità che porta ad una tendenziale continuità dell’azione amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i compiti di indirizzo politico – amministrativo e quelli di gestione: la dirigenza tecnica, pertanto, deve essere “circondata da garanzie” di stabilità, in quanto la dipendenza funzionale del dirigente non può diventare dipendenza politica (questo non trova ancora riscontro certo nella riforma).
Nell’attuale assetto normativo nei confronti degli incarichi dirigenziali, conferiti ai sensi dell’art. 19, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001, la decadenza automatica dell’incarico contrasta con la fissazione degli obiettivi predisposti in sede di stipulazione del contratto di lavoro e della relativa responsabilità dirigenziale: ogni intervento che preveda, in via automatica, la risoluzione ante tempus del contratto dirigenziale comporta effetti caducatori sul connesso rapporto di lavoro a tempo determinato, con evidenti e ancor più intense implicazioni in termini di tutela dell’affidamento del dipendente interessato.
La riforma non da traccia del ricambio mediante lo spoils system, ricambio che risponderebbe alle esigenze funzionali della gestione dello Stato in modo trasparente, in una prospettiva di prevenzione della corruzione e di buona amministrazione; risponde, invero, alle esigenze interne del corpo politico per sistemare i bisogni dei propri clienti, assicurandosi quella fedeltà che non si può confondere con il servizio esclusivo alla Nazione (ex art. 98 Cost.).
La dirigenza, a chiamata o di fiducia, risponde principalmente alle esigenze della politica di convogliare in pochi soggetti i propri poteri decisionali, trasformando gli indirizzi in scelte tecniche e attribuendo, a ristrette oligarchie (il c.d. governo dei burocrati), le sorti del proprio mandato elettorale: pretendere di estendere a tutto il complesso apparato amministrativo, mediante lo spoil system, le nomine dirigenziali, occupando tutti gli anfratti direzionali, significa stravolgere la struttura stessa dell’Amministrazione ed invertire i principi di imparzialità e indipendenza che governano l’azione amministrativa, con dirigenti al servizio di una parte, quella che in quel determinato momento governa.
I Segretari comunali e provinciali
In questo processo riformista del non scritto, manca tutta la parte rivolta ai Segretari comunali, provinciali, alla gestione dell’Albo, al nuovo “dirigente apicale”, alla confluenza di coloro che svolgono o hanno svolto la funzione, ai compiti attribuiti e ai ruoli svolti dei responsabili di una funzione primaria di prevenzione della corruzione e della trasparenza (RPCT); in termini di versi, all’inquadramento di questa figura essenziale per la vita degli Enti locali, che si vorrebbe escludere, dopo averla presa come riferimento per la lotta contro la corruzione, nel testo originario della legge n. 190/2012, ritenuta un “baluardo a tutela della legalità e dell’imparzialità delle amministrazioni, anche in situazioni di gravi difficolta operative e di contesto”.
La riforma avrebbe dovuto chiarire il ruolo del Segretario comunale e provinciale, soggetto ad uno spoils system senza paragoni rispetto ad altre figure dirigenziali e senza tutela, visto che la mancata conferma è normativamente priva di alcun contraddittorio o valutazione di risultati (positivi o negativi), oltretutto una figura centrale nei controlli successivi di regolarità amministrativa e di responsabilità oggettiva in materia di prevenzione del rischio corruttivo, un soggetto nominato che opera all’interno dell’amministrazione con una molteplicità di funzioni ma, allo stesso tempo, inserito nella fase di verifica e controllo, con evidenti interferenze operative.
Non sfugge che, sebbene i diversi Piani Nazionali Anticorruzione, auspicano l’autonomia e indipendenza dall’organo elettivo, e – in caso di revoca – è prevista la partecipazione dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), tale figura opera comunque all’interno della struttura con evidenti difficoltà per l’acquisizione di mezzi e risorse per effettuare concretamente ed effettivamente la funzione, a fronte di un contesto ambientale che dovrebbe porlo in una funzione terza e al di fuori dello stesso apparato: la coesistenza di funzioni gestionali, di assistenza degli organi, di sovraintendenza della dirigenza, associate a funzioni di controllo e di impulso (anche con poteri sostitutivi) presentano una commistione di poteri che dovrebbero essere assicurati da una effettiva indipendenza e stabilità: tali tematiche esulano nella lettura della riforma del pubblico impiego, pur coinvolgendo un ambito esteso di amministrazioni pubbliche.
Una riforma debole
La riforma si caratterizza per quanto non ha affrontato dei temi centrali del pubblico impiego e che rappresentano i nodi irrisolti della dirigenza pubblica e dei Segretari comunali e provinciali, del rapporto tra “politica e amministrazione”, dello spoils system, dell’autonomia e indipendenza.
Complessivamente le norme contenute nei decreti legislativi nn. 74 e 75 del 25 maggio 2017 non incidono sulle questioni importanti del pubblico impiego, intervengono per aggiustare parti che non presentano grandi rilievi di essenzialità, sicuramente possono aiutare il cammino di miglioramento ma non giustificano la reale volontà di affermare una “rivoluzione”, come illuminazione del dominio e della trasformazione che innerva il cambiamento nel pubblico impiego, che generalmente può associarsi al concetto e alla natura di un documento che possa chiamarsi di “riforma ordinamentale” rispetto ad un assetto precedente: vi sono certi angoli poco illuminati che non interessano chi celebra e che vengono oscurati, non trattati ma che rivestono di significato l’insieme e la loro assenza porta tutto nell’oblio.
(estratto, Riforma del pubblico impiego, Comuni d’Italia, 2017, n. 6)