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Articolo Pubblicato il 8 Dicembre, 2017

Le novità normative in materia di whistleblowing

Le novità normative in materia di whistleblowing

Il whistleblowing è un istituto di prevenzione della corruzione, derivato dall’esperienza dei Paesi anglosassoni (oltreoceano), recepito a livello ordinamentale dalla Legge n. 190/2012, con l’inserimento nel Testo Unico del Pubblico Impiego (TUPI) dell’art. 54 bis a tutela del dipendente, fuori dei casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile, che segnala illeciti di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro: la disciplina, assicura delle garanzie minime contro eventuali sanzioni o misure discriminatorie, dirette o indirette, avente effetti sulle condizioni di lavoro per ragioni collegate alla denuncia.

La proposta di legge «Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato» (approvata dalla Camera e modificata dal Senato. La proposta di legge C. 3365-B è stata trasmessa dal Senato il 18 ottobre 2017, in Commissione iniziato l’iter il 24 ottobre 2017 e concluso il 9 novembre 2017; discussione in Assemblea Camera iniziata il 14 novembre 2017 e conclusa il 15 novembre 2017, approvato definitivamente), intende rivedere la materia sostituendo integralmente l’articolo 54 bis del D.Lgs. n. 165/2001 (art. 1), prevedendo una tutela maggiore anche nel settore privato, incidendo sul c.d. modello 231, «Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica» (art. 2), integrando la disciplina sul segreto (art. 3).

L’intervento normativo, si legge nei lavori parlamentari, è diretto principalmente a perfezionare la disciplina riguardante uno strumento di tutela della legalità, il cosiddetto whistleblower, con il quale sostanzialmente si indica colui che segnala un illecito, riscontrato in ambito lavorativo, lesivo dell’interesse pubblico.

Nella sua stesura definitiva si presentano tre articoli che interessano due distinte discipline:

  1. quella del pubblico impiego: l’art. 54 bis del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, «Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche»);
  2. quella del settore privato: l’art. 6 del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231,«Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300».

Nel dettaglio, l’art. 1 riscrive l’impianto della Legge n. 190/2012 (c.d. Severino), occupandosi di inquadrare il dipendente in una dimensione estesa a tutti coloro che operano all’interno della P.A., il concetto di buona fede, l’anonimato sull’identità del segnalante e la sottrazione al diritto di accesso (norma già presente), i compiti attuativi dell’ANAC e del Garante per la protezione dei dati, la creazione di un sistema sanzionatorio di natura amministrativa pecuniaria per le condotte discriminatorie, gli effetti di una segnalazione infondata.

L’art. 1 propone la nuova versione dell’art. 54 bis del D.Lgs. n. 165/2001 (con le modifiche introdotte dal Senato):

Comma 1.

Intende subito esprimere un valore solidale della segnalazione che viene effettua dal dipendente pubblico (il comma 2, secondo periodo, equipara la figura ad altri soggetti) con una finalità vincolata all’interesse dell’integrità della P.A. e in buona fede, da intendersi, ai sensi del comma 2, primo periodo,, come una segnalazione circostanziata nella ragionevole convinzione, fondata su elementi di fatto, che la condotta illecita segnalata si sia verificata, escludendo quella segnalazione non sorretta da riscontri, e quindi promossa con colpa grave.

La segnalazione della condotta illecita, di cui si è venuti a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro, va rivolta (in via alternativa, forse):

  1. al RPCT (è sostituito il riferimento al superiore gerarchico);
  2. all’ANAC;
  3. all’Autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile (in questo caso di parla di denuncia non di segnalazione.

Il segnalante o denunciante non può essere:

  1. sanzionato;
  2. demansionato;
  3. licenziato;
  4. trasferito;
  5. sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinate dalla segnalazione.

Le eventuali misure ritorsive, come in precedenza, possono essere segnalate direttamente dall’interessato oppure (sembra un’alternativa) dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell’amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere all’ANAC (in via esclusiva, visto l’inciso «in ogni caso»).

Quest’ultima informerà (si tratta di una nuova incombenza istruttoria e dispositiva) il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri o gli altri organismi di garanzia o di disciplina per le attività e gli eventuali provvedimenti di competenza.

Si deve osservare che nella precedente formulazione l’interessato adiva direttamente alla FP, mentre ora sarà l’ANAC a valutare i soggetti da informare della condotta discriminatoria, ben potendo trattare e/o distribuire l’informativa in relazione ai fatti discriminatori assunti (questa parte finale si collega con il comma 6).

Comma 2.

Si occupa di equiparare il dipendente pubblico:

  1. il dipendente di un ente pubblico economico, ovvero il dipendente di un ente di diritto privato sottoposto a controllo pubblico, ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile;
  2. anche ai collaboratori o consulenti, con qualsiasi tipologia di contratto o di incarico, nonché ai lavoratori e ai collaboratori a qualsiasi titolo di imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell’amministrazione pubblica.

Comma 3, 4 e 5.

Il comma 3 (il comma 4, sottrae al diritto di accesso documentale la segnalazione) impone la massima riservatezza sull’identità del segnalante che «non può essere rivelata» e, rispondendo alle osservazioni già evidenziate nelle premesse alle esigenze, anche nell’ambito del procedimento penale l’obbligo del segreto deve essere mantenuto, ai sensi dell’art. 329 c.p.p.; a ben vedere, tuttavia, tale tutela è limitata agli atti d’indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari, con la conseguenza che il segreto viene solo temporaneamente garantito.

Stessa sorte, anche nell’ambito del procedimento dinanzi alla Corte dei conti, ove l’identità del segnalante non può essere rivelata fino alla chiusura della fase istruttoria.

Nell’ambito del procedimento disciplinare l’identità del segnalante non può essere rivelata, ove la contestazione dell’addebito sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione, anche se conseguenti alla stessa, risultando l’operazione di verifica di tali limiti non di semplice soluzione, visto che è indispensabile confutare o meno il fondamento dell’attività d’impulso; in effetti, qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione e la conoscenza dell’identità del segnalante sia indispensabile per la difesa dell’incolpato, la segnalazione sarà utilizzabile ai fini del procedimento disciplinare solo in presenza di consenso del segnalante alla rivelazione della sua identità.

Quest’ultima precisazione appare quanto meno contraddittoria e suggestiva, in ragione della procedura di segnalazione che è impostata sulla tutela dell’identità del segnalante, che diversamente non adotterebbe un meccanismo riservato (una linea dedicata) per esporre i fatti conosciuti, esponendosi da subito a quei comportamenti che la norma intende scongiurare.

Sotto tale ultimo profilo e a conferma del precedente ragionamento, il comma 5 conferma il dettato normativo sull’esigenza di riservatezza ed esclusione della pubblicità e/o diffusione dell’identità del segnalante (oltre al contenuto della segnalazione), quando attribuisce all’ANAC, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, il potere di adottare apposite «Linee guida» relative alle procedure per la presentazione e la gestione delle segnalazioni, utilizzando modalità anche informatiche, promuovendo il ricorso a strumenti di crittografia (competenza già ora in capo all’ANAC, affidata direttamente dalla Legge n. 190/2012, peraltro, competenza già esercitata nei PNA).

Comma 6.

Questo comma, che delinea il sistema sanzionatorio, si presenta in modo distinto rispetto alla stesura definitiva approvata dai due rami del Parlamento.

Alla Camera si prevede che quando venga accertato:

  1. l’adozione di misure discriminatorie da parte dell’ente, fermi restando gli altri profili di responsabilità, l’ANAC applica al responsabile che ha adottato la misura una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 30.000 euro;
  2. nel caso di assenza o non conformità della procedura di segnalazione, l’ANAC applica al responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 20.000 euro.

Al Senato (il comma 6 viene integrato di ulteriore due commi) si prevede che quando venga accertato:

  1. l’adozione di misure discriminatorie da parte di una delle amministrazioni pubbliche o di uno degli enti indicati dalla legge, fermi restando gli altri profili di responsabilità, l’ANAC applica al responsabile che ha adottato la misura una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 30.000 euro;
  2. nel caso di assenza o non conformità della procedura di segnalazione, l’ANAC applica al responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro;
  3. il mancato svolgimento da parte del responsabile di attività di verifica e analisi delle segnalazioni ricevute, si applica al responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro.

Il Senato in relazione agli elevati importi della sanzione pecuniaria (che potrebbero limitare il campo di intervento finalizzato a reprimere la delazione o viceversa, sotto altro profilo, ad aumentarla), indica all’ANAC dei criteri di determinazione dell’entità della sanzione in relazione delle dimensioni dell’amministrazione o dell’ente cui si riferisce la segnalazione, principi di graduazione che intenderebbe mitigare le inefficienze in relazione all’organizzazione interne delle strutture.

Viene, inoltre, disposto – ai commi 7 e 8 – un’inversione dell’onere della prova, ponendo a carico del soggetto che ha adottato le misure discriminatorie o ritorsive dimostrare che gli interventi non sono collegati alla segnalazione, ma sono fondate, con onere motivazionale espresso, da altre ragioni non collegate alla denuncia, pena la loro nullità; nel caso di licenziato collegato alla segnalazione il whistleblower è reintegrato nel posto di lavoro, ai sensi dell’articolo 2 del Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (c.d. licenziamento discriminatorio).

Comma 7 e 8.

I due commi (il comma 8 è stato soppresso dal Senato) affrontano gli effetti di una segnalazione infondata (richiamandosi all’incipit dell’originario articolo «Fuori dei casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile»):

  1. le tutele apprestate dall’art. 54 bis del D.Lgs. n. 165/2001 non sono garantite nei casi in cui sia accertata, anche con sentenza di primo grado, la responsabilità penale del segnalante per i reati di calunnia o diffamazione o comunque per reati commessi con la denuncia ovvero la sua responsabilità civile, per lo stesso titolo, nei casi di dolo o colpa grave (comma 7);
  2. qualora emergesse, al termine del procedimento penale, civile o contabile ovvero all’esito dell’attività di accertamento dell’ANAC, l’infondatezza della segnalazione e che la stessa non è stata effettuata in buona fede (in termini diversi, quando vi è volontà cosciente di recare danno), il segnalante è sottoposto a procedimento disciplinare che può condurre, in relazione alla gravità dei fatti, al licenziamento senza preavviso, dimostrando appieno la violazione dell’obbligo di fedeltà e lealtà, ovvero la violazione delle regole di buona amministrazione e imparzialità, quell’aspettativa di fiducia che la collettività ripone sull’Amministrazione e su coloro che ne sono al servizio per una finalità pubblica e non per assecondare propri fini estranei alle regole minimali di condotta che orientano il comportamento del dipendente pubblico (comma 8).

Per concludere e trarre una qualche valutazione, l’intervento appare significativo di una volontà di redimere il malaffare con nuove norme che si stratificano su altre norme senza risolvere la questione di base, la c.d. sostanza, che rimane quella di un reale cambiamento di cultura, cambiamento che dovrebbe partire da altri presupposti, senza normare la normativa pensando di risolvere il problema che alberga nell’etica e nella sua dimensione solidaristica, senza volere citare inopinatamente il principe Fabrizio Salina.

(estratto, Le novità normative in materia di whistleblowing, in Comuni d’Italia, 2017, n. 11)