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Articolo Pubblicato il 7 Novembre, 2018

Porte girevoli e nuove mutazioni della dirigenza tra il digitale e il dato biometrico

Porte girevoli e nuove mutazioni della dirigenza tra il digitale e il dato biometrico

La disciplina in materia di pubblico impiego, ex art. 56, comma 16 ter del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 «Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche» (c.d. TUPI) pongono dei limiti (c.d. periodo di raffreddamento) all’assunzione di incarichi successivamente alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, la cui violazione è sanzionata con la nullità: si delinea una ipotesi di “incompatibilità successiva’”.

Il comma 16 ter dell’art. 56 del TUPI dispone: «I dipendenti che, negli ultimi tre anni di servizio, hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto delle pubbliche amministrazioni…, non possono svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale presso i soggetti privati destinatari dell’attività della pubblica amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri. I contratti conclusi e gli incarichi conferiti in violazione di quanto previsto dal presente comma sono nulli ed è fatto divieto ai soggetti privati che li hanno conclusi o conferiti di contrattare con le pubbliche amministrazioni per i successivi tre anni con obbligo di restituzione dei compensi eventualmente percepiti e accertati ad essi riferiti».

Il comma 16 ter è stato inserito nell’art. 53 («Incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi») dall’art. 1, comma 42, lett. l), della Legge 6 novembre 2012, n. 190, «Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione», con lo scopo di evitare le c.d. “porte girevoli” (pantouflage o revolving doors), ovvero quel fenomeno riferito alla condotta di un dipendente della P.A. che, in relazione alla propria attività d’ufficio e ai poteri esercitati posti in essere nei confronti di terzi, possa predisporre le condizioni favorevoli (o agevolare le stesse) per ottenere un lavoro presso il soggetto privato in cui entra in contatto una volta conclusa l’attività lavorativa.

Tale fenomeno è previsto anche per le cariche di Governo, evitando che un soggetto possa passare da una carica politica ad una carica dirigenziale, magari su un ente o società partecipata dallo Stato.

Lo scopo del quadro normativo concorrente è il medesimo, evitare un esercizio della funzione pubblica per acquisire una certa disponibilità nel futuro incarico, orientando o agevolando il processo decisionale presente.

Infatti, anche la legge 20 luglio 2004, n. 215 «Norme in materia di risoluzione dei conflitti di interessi» (nota come “Legge Frattini”) prevede, all’art. 2 «Incompatibilità» (si riporta un estratto) il periodo di interclusione alla carica:

«Il titolare di cariche di governo, nello svolgimento del proprio incarico, non può:

  1. a) ricoprire cariche o uffici pubblici diversi dal mandato parlamentare, di amministratore di enti locali, come definito dall’articolo 77, comma 2, del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e da quelli previsti dall’articolo 1 e non inerenti alle medesime funzioni, ad esclusione delle cariche di cui all’articolo 1, secondo comma, della legge 13 febbraio 1953, n. 60;
  2. b) ricoprire cariche o uffici o svolgere altre funzioni comunque denominate in enti di diritto pubblico, anche economici;
  3. c) ricoprire cariche o uffici o svolgere altre funzioni comunque denominate ovvero esercitare compiti di gestione in società aventi fini di lucro o in attività di rilievo imprenditoriale;
  4. d) esercitare attività professionali o di lavoro autonomo in materie connesse con la carica di governo, di qualunque natura, anche se gratuite, a favore di soggetti pubblici o privati; in ragione di tali attività il titolare di cariche di governo può percepire unicamente i proventi per le prestazioni svolte prima dell’assunzione della carica; inoltre, non può ricoprire cariche o uffici, o svolgere altre funzioni comunque denominate, né compiere atti di gestione in associazioni o società tra professionisti;
  5. e) esercitare qualsiasi tipo di impiego o lavoro pubblico;
  6. f) esercitare qualsiasi tipo di impiego o lavoro privato.
  7. … L’incompatibilità prevista dalle disposizioni di cui alle lettere b), c) e d) del comma 1 perdura per dodici mesi (c.d. termine di raffreddamento, n.d.a.) dal termine della carica di governo nei confronti di enti di diritto pubblico, anche economici, nonché di società aventi fini di lucro che operino prevalentemente in settori connessi con la carica ricoperta».

In un caso specifico, di un certo clamore mediatico, l’Autorità di vigilanza (AGCM, http://www.agcm.it/dotcmsDOC/delibere-conflitto-di-interessi/SI820B.pdf) ha riferito che la «disposizione in esame sia essenzialmente intesa ad escludere in radice anche la mera eventualità che l’esercizio delle attribuzioni inerenti la carica di governo possa essere influenzato o distorto dall’interesse del titolare a precostituirsi benefici futuri, ad esempio in termini di incarichi successivi alla cessazione della carica governativa. In questo senso, l’elemento di discontinuità, introdotto dal legislatore nei rapporti tra gli ex titolari di carica e gli enti o le società che operino prevalentemente nei settori interessati dalle specifiche funzioni esercitate nel corso del mandato governativo, è finalizzato a salvaguardare l’imparzialità dell’azione pubblica, che rappresenta il principio cardine della disciplina sul conflitto di interessi. L’indagine sugli elementi della connessione e della prevalenza, di cui all’articolo 2, comma 4, secondo periodo, della legge 20 luglio 2004, n. 215, è finalizzata a verificare quali siano i settori di attività prevalente delle società o degli enti presso cui è assunto l’incarico, indagando se sussistano, per tali attività, profili di connessione con le funzioni e le competenze istituzionali del titolare di carica. La valutazione si concentra sull’analisi astratta delle attribuzioni della carica governativa, accertandone l’idoneità a coinvolgere quegli stessi settori nei quali la società o l’ente opera in via prevalente, verificando altresì se possa sussistere, in fatto, un legame fra le attribuzioni del titolare di carica e l’ente o la società interessata (attraverso ad esempio, il potere di nominarne i vertici oppure per effetto di pregressi rapporti contrattuali della società o dell’ente con il dicastero interessato)».

In modo cangiante, l’incompatibilità successiva, ma anche il conflitto di interessi, sono situazioni particolari che impediscono ad un soggetto, che ricopre una determinata carica, di esprimere il proprio assenso o potere decisionale in piena libertà di coscienza (e di interesse), con una evidente alterazione o tensione di tali manifestazioni.

La ratio, senza andare oltre, di tale principio risiede nell’esigenza pratica di impedire che possano concorrere all’esercizio di una determinata funzione elementi tra loro confliggenti (i c.d. interessi suscettibili di contrapposizione), dovendo sempre privilegiare in ambito pubblico, e per esigenza ormai costituzionalizzata dall’articolo 97 Cost., condizioni di assoluta imparzialità (neutralità) e indipendenza (equidistanza) ma anche quello dell’adeguato impegno nello svolgimento delle proprie funzioni, che può essere compromesso quando coesistono posizioni di “controllore” e “controllato” (quis costodiet ipsos custodes?) investite in una medesima persona: un condizionamento inconciliabile che s’innesta nella valutazione decisionale, in stretta correlazione con il rapporto esistente in concreto e il suo possibile e potenziale nuovo rapporto.

L’incompatibilità (successiva), il conflitto di interessi e l’obbligo di astensione sono coniugi di una medesima ratio legis che impedisce (o vorrebbe impedire) al soggetto che esercita una funzione pubblica (ex art. 54 Cost.) di assumere una decisione che possa (suo malgrado, si vorrebbe pensare) riflettersi positivamente sulla propria sfera giuridica in un momento ex post: quello dell’assunzione del nuovo incarico.

La violazione dell’obbligo di astensione (e la connessa incompatibilità successiva) si ripercuote negativamente (inquina) la manifestazione deliberante che ha concorso a formare la decisione: si tratta di una condanna all’abuso “delle funzioni e dei poteri esercitati” (GIOVENCO, L’ordinamento comunale, Milano, 1983).

Vi è l’esigenza di salvaguardare nel tempo (il periodo di sospensione dall’assunzione di nuovi incarichi) l’imparzialità dell’agire pubblico, evitando che taluni titolari di posizione di supremazia rispetto ad altri soggetti incisi, dai poteri autoritativi o negoziali, possano coartare il risultato in forma di captatio benevolentiae.

Quindi, l’obiettivo dichiarato è quello di prevenire uno scorretto esercizio dell’attività istituzionale da parte del dipendente pubblico, un conflitto di interessi ad effetti differiti, finalizzato a precostituirsi un favor nei confronti di coloro che in futuro, non molto lontano, potrebbero conferirgli incarichi professionali, in evidente violazione dei principi costituzionali di trasparenza, imparzialità, buon andamento e di quello che impone ai pubblici impiegati esclusività del servizio a favore dell’Amministrazione (art. 97 e 98 Cost.).

Il punto nove, dell’aggiornamento 2018 al Piano Nazionale Anticorruzione (PNA, in consultazione on line del 25 ottobre 2018), dedica all’“incompatibilità successiva(pantouflage) un articolato approfondimento, rilevando primariamente le specifiche conseguenze sanzionatorie e i poteri di intervento:

  1. la nullità del contratto concluso e dell’incarico conferito in violazione del predetto divieto;
  2. ai soggetti privati che hanno conferito l’incarico è preclusa la possibilità di contrattare con le pubbliche amministrazioni nei tre anni successivi, con contestuale obbligo di restituzione dei compensi eventualmente percepiti ed accertati ad essi riferiti;
  3. l’intervento dell’Autorità si esplica in termini sia di vigilanza (ex 16 e 21 del D.Lgs. n. 39/2013), sia di funzione consultiva di natura preventiva (ex 1, comma 2 della Legge n. 190/2012, art. 1, co. 2, lett. e);
  4. al Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza (RPCT) è riposta la competenza in merito al procedimento di contestazione all’interessato dell’inconferibilità e incompatibilità dell’incarico (ex 15 e 10, comma 1 del cit. D.Lgs. n. 39/2013), segnando, in via prioritaria, alle amministrazioni di appartenenza del dipendente cessato dal servizio l’onere di adottare misure adeguate per verificare il rispetto della disposizione da inserire nel Piano triennale di prevenzione della corruzione (PTPC).

Al termine dell’analisi, l’Autorità conclude che una volta accertata l’effettiva violazione «non ha ulteriori poteri in merito al compimento degli atti conseguenti», invitando tutti gli obbligati a inserire nei PTPC, quale “misura” volta a implementare l’attuazione dell’istituto, l’obbligo per il dipendente, al momento della cessazione dal servizio, di sottoscrivere una dichiarazione con cui si impegna al rispetto del divieto di pantouflage, allo scopo di evitare eventuali contestazioni in ordine alla conoscibilità della norma.

Qualche riflessione in vista della nuova dirigenza digitalizzata e a termine.

La piattaforma normativa nel suo insieme ha ormai raggiunto, in chiave di documento analogico, diversi metri di altezza tra le migliaia di commi e misure adottate, attendiamo anche l’attuazione del Ddl #SpazzaCorrotti e della “Concretezza” (il decreto “sicurezza” è già una realtà), con la creazione di nuovi Commissari ad acta o Nuclei di miglioramento, con le impronte digitali e i dati biometrici.

Impronte digitali e dati biometrici (scanner oculare), posti in discussione dal Garante Privacy (doc. web n. 9051774, Parere su uno schema di disegno di legge recante “Interventi per la concretezza delle azioni delle pubblicheamministrazioni e la prevenzione dell’assenteismo” – 11 ottobre 2018, Registro dei provvedimenti n. 464 dell’11 ottobre 2018) quando afferma che «… L’identificazione biometrica (one to many matching, confronto “uno a molti”) si utilizza quando il dato biometrico acquisito in tempo reale di un interessato non conosciuto viene confrontato con tutti i dati biometrici presenti in un database e già associati a soggetti noti, per essere collegato a quello con le caratteristiche più simili, a fini appunto identificativi… Nel contesto della rilevazione delle presenze, invece, i soggetti abilitati ad accedere sono noti a priori (i dipendenti pubblici di una amministrazione) e il sistema deve effettuare una mera verifica (ossia un confronto “uno a uno”). Da questo punto di vista si ritiene più corretto il ricorso alla seguente locuzione: ”sistemi di verifica biometrica dell’identità” e poiché a tale categoria sono riconducibili varie tecnologie, si richiama l’attenzione del legislatore sull’opportunità di individuarne già in questa sede una, che risulti compatibile con le esigenze di protezione dei dati personali dei lavoratori».

Letto in chiave semplicistica, o da parte di coloro che poco comprendono di linguaggio digitale, si potrebbe sostenere che tale forma di controllo generalizzata mediante il trattamento di dati biometrici (ex art. 4, comma 1, punto 14 del GDPR, «i dati personali ottenuti da un trattamento tecnico specifico relativi alle caratteristiche fisiche, fisiologiche o comportamentali di una persona fisica che ne consentono o confermano l’identificazione univoca, quali l’immagine facciale o i dati dattiloscopici») risulterebbe eccessiva (abnorme) rispetto alle finalità estrinseche, oltre a costituire un ulteriore e dispendioso investimento tecnologico: «appare evidente che l’acquisto e la messa in servizio di nuove dotazioni tecnologiche non possa avvenire senza un supporto finanziario da parte dello Stato» (Nota sullo schema di disegno di legge recante “Interventi per la concretezza delle azioni delle pubbliche amministrazioni e la prevenzione dell’assenteismo”, ANCI – UPI, 31 ottobre 2018).

Non è superfluo osservare che le forme corrette e adeguate di controllo già sono presenti: basterebbe rispettarle e farle rispettare, gli esempi non mancano.

Queste nuove forme di controllo che pretenderebbero di risolvere il problema dei c.d. “furbetti del cartellino” non potranno risolvere, se una volta marchiato o scannerizzato digitalmente il dipendente, non si effettua il controllo materiale della presenza (altri c.d. “furbetti del biometrino”).

Allora, si passerà al microchip sottocutaneo con collegamento wireless o il bracciale elettronico, con tracciamento della posizione: la strada è segnata, la libertà un po’ meno.

Sulla legittimità della raccolta del dato biometrico, per la verifica della presenza del lavoratore, la Cassazione (Cass. Civ., sez. II, Ord. del 15 ottobre 2018, n. 25686) si è pronunciata sulle modalità e sulla necessaria notificazione al Garante Privacy, in relazione al trattamento.

Impronte digitali, scanner oculare, video sorveglianza oggi; bracciale elettronico, microchip neurali, droni satellitari, telecamera visiva (negli occhiali), domani.

Che altro ancora?

In questi processi di rinnovamento, di ricambio generazionale, di digitalizzazione, di trattamento massivo di dati biometrici (con futura implantologia di microchip), di perenne riforma assistiamo, ancora una volta, al nuovo lancio “subito la riforma della dirigenza” pubblica (cfr., Italia Oggi, 7 novembre 2018, pag. 43).

Leggendo queste “grida” si rimane con qualche perplessità se ad affrontare concretamente la riforma bastasse un’impronta digitale (o una manina) e la video sorveglianza; nel proclama, anche qualche luce di speranza quando si afferma che il «vero problema» è «la stratificazione di norme… microitalie dentro l’Italia».

Eccellente e condivisibile. Vi è il bisogno di semplificazione più che di cambiamento.

Da anni, con la riforma del pubblico impiego si continua riformare la riforma, si sono attribuite le responsabilità gestionali ai dirigenti secondo il principio di separazione tra politica e amministrazione, si è introdotta la call pubblica, si è rafforzato lo spoils system.

Si è fatto un ampio uso dell’ipocrisia, dell’indipendenza e dell’autonomia della dirigenza; ma non si è sciolto il nodo del processo di nomina della dirigenza (di fiducia).

Tale ultimo aspetto, appare di evidente attualità quando si pretenderebbe di licenziare (legittimamente?) in aderenza al sistema delle spoglie coloro che non rispettano le direttive impartite dagli organi elettivi, coloro che non prestano la dovuta attenzione alla dialettica politica.

Dialettica espressa nelle giuste sedi e nei suoi ambiti di competenza, in coerenza con il mandato elettivo, espressione compiuta della distinzione tra politica e amministrazione, tra rappresentanza e democrazia.

Ma è proprio così?

Sarebbe opportuno, ma le suggestioni sono diverse, al di là della forma guardare alla sostanza.

Per ritornare al tema, attribuire a dirigenti pubblici/privati o apparati organizzativi compiti di prevenzione della corruzione (ad es., di controllo del pantouflage) senza le corrispondenti potestà inibitorie e poteri ispettivi ma, soprattutto privi di effettiva autonomia, indipendenza e tutela (senza voler citare ancora lo spoils system), diventa solamente una celebrazione: un salita sul proscenium, senza affrontare efficacemente, e nella sua dimensione concreta, il nuovo (già visto) che avanza.

Senza andare oltre, sarebbe più coerente ridare dignità al dipendente pubblico (la disciplina è principalmente a lui rivolta), investire in cultura e senso civico, semplificare e ridurre il prodotto normativo, dare certezza al diritto, ma questa sarebbe sì una sfida, o sarebbe impossibile (?).

(N.d.a., Estratto rielaborato, Poteri decisionali e inconferibilità successiva (c.d. pantouflage), LexItalia.it, 3 novembre 2018)