«Libero Pensatore» (è tempo di agire)

Gli incarichi 110

Gli incarichi a contratto (ex art. 110 del d.lgs. n. 267/2000, TUEL) hanno lo scopo di assolvere – per un determinato periodo (la funzione ad tempus)[1] – profili di alta responsabilità presso gli Enti locali con modelli organizzativi/gestionali delle risorse umane flessibili e sono generalmente associati ad un forte connotato di “affinità”, nel senso che il criterio di selezione, seppure di natura comparativa, non risulta propriamente concorsuale, oltre che essere una caratterizzazione dello spoil system.

In effetti, la scelta ricade su un candidato, idoneo non necessariamente provvisto di maggiori titoli (manca una graduatoria di merito, trattandosi di una verifica dell’idoneità che presuppone il possesso della qualifica)[2], escludendo (così facendo) in radice l’intuitu personae[3], avendo ancorata l’individuazione da parte dell’Amministrazione all’esito selettivo dell’apprezzamento complessivo del candidato, in una batteria di più soggetti titolati (attività istruttoria generalmente apprezzata da una commissione)[4]: in questo senso si manifesta la “fiducia” nell’assolvere il compito affidato su parametri valutativi rimessi all’organo elettivo.

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Incarichi ex 110 TUEL e inconferibilità del professionista/progettista: rileva il profilo della stabilità e continuità

Incarichi ex 110 TUEL e inconferibilità del professionista/progettista: rileva il profilo della stabilità e continuità

Gli incarichi 110

Gli incarichi a contratto (ex art. 110 del d.lgs. n. 267/2000, TUEL) hanno lo scopo di assolvere – per un determinato periodo (la funzione ad tempus)[1] – profili di alta responsabilità presso gli Enti locali con modelli organizzativi/gestionali delle risorse umane flessibili e sono generalmente associati ad un forte connotato di “affinità”, nel senso che il criterio di selezione, seppure di natura comparativa, non risulta propriamente concorsuale, oltre che essere una caratterizzazione dello spoil system.

In effetti, la scelta ricade su un candidato, idoneo non necessariamente provvisto di maggiori titoli (manca una graduatoria di merito, trattandosi di una verifica dell’idoneità che presuppone il possesso della qualifica)[2], escludendo (così facendo) in radice l’intuitu personae[3], avendo ancorata l’individuazione da parte dell’Amministrazione all’esito selettivo dell’apprezzamento complessivo del candidato, in una batteria di più soggetti titolati (attività istruttoria generalmente apprezzata da una commissione)[4]: in questo senso si manifesta la “fiducia” nell’assolvere il compito affidato su parametri valutativi rimessi all’organo elettivo.

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Il consigliere comunale gode di uno status particolare in materia di “accesso agli atti”, collegato all’esercizio di una funzione pubblica, potendo ottenere dagli uffici ogni “informazione” o “notizia” ritenuta utile relativa all’organizzazione amministrativa e alla gestione delle risorse pubbliche, ex art. 43, Diritti dei consiglieri, comma 2 del d.lgs. n. 267/2000 (TUEL), osservando che una volta richiesto l’accesso e acquisita la documentazione, una sua eventuale reiterazione può essere negata[1].

L’accesso è funzionale all’espletamento del mandato elettorale, assumendo una connotazione ulteriore e più ampia rispetto al diritto di accesso del singolo cittadino (ai sensi degli artt. 22 ss. della legge n. 241/1990) poiché al consigliere è consentito richiedere anche semplici informazioni (non necessariamente tradotte in atti), non contenute in documenti già formati od anche dalla natura riservata[2].

Invero, il bisogno di conoscenza del titolare della carica elettiva deve porsi in rapporto di strumentalità con la funzione di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, di cui nell’ordinamento dell’ente locale è collegialmente rivestito il consiglio comunale (ex art. 42, comma 1, TUEL), e alle prerogative attribuite singolarmente al componente dell’organo elettivo: il diritto del consigliere comunale all’accesso agli atti, ex art. 43, comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2000 non è, dunque, incondizionato[3].

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Illegittimo differimento del diritto di accesso del consigliere comunale

Illegittimo differimento del diritto di accesso del consigliere comunale

Il consigliere comunale gode di uno status particolare in materia di “accesso agli atti”, collegato all’esercizio di una funzione pubblica, potendo ottenere dagli uffici ogni “informazione” o “notizia” ritenuta utile relativa all’organizzazione amministrativa e alla gestione delle risorse pubbliche, ex art. 43, Diritti dei consiglieri, comma 2 del d.lgs. n. 267/2000 (TUEL), osservando che una volta richiesto l’accesso e acquisita la documentazione, una sua eventuale reiterazione può essere negata[1].

L’accesso è funzionale all’espletamento del mandato elettorale, assumendo una connotazione ulteriore e più ampia rispetto al diritto di accesso del singolo cittadino (ai sensi degli artt. 22 ss. della legge n. 241/1990) poiché al consigliere è consentito richiedere anche semplici informazioni (non necessariamente tradotte in atti), non contenute in documenti già formati od anche dalla natura riservata[2].

Invero, il bisogno di conoscenza del titolare della carica elettiva deve porsi in rapporto di strumentalità con la funzione di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, di cui nell’ordinamento dell’ente locale è collegialmente rivestito il consiglio comunale (ex art. 42, comma 1, TUEL), e alle prerogative attribuite singolarmente al componente dell’organo elettivo: il diritto del consigliere comunale all’accesso agli atti, ex art. 43, comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2000 non è, dunque, incondizionato[3].

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La natura della concessione cimiteriale

La concessione cimiteriale è un atto amministrativo con il quale la P.A. concede ad un terzo nuove posizioni giuridiche attive (c.d. atto ampliativo della sfera giuridica del destinatario)[1] che si distingue dall’autorizzazione che si limita (quest’ultima) a rimuovere un limite all’esercizio di diritti, poteri e facoltà preesistenti, differenziandosi alla radice del diritto proprio per il conferimento di nuovi diritti e potestà di cui la P.A. è titolare (per questi primi motivi non si potrebbe parlare di acquisto di un titolo di proprietà, peraltro il bene è demaniale, ex comma 2 dell’art. 824 c.c., di conseguenza inalienabili, ai sensi dell’art. 823 c.c.)[2] ma che non intende esercitare direttamente (pur mantenendone intestato il potere e la titolarità) ammettendo il soggetto «al godimento di beni della vita riservati ai pubblici poteri, non suscettibili di formare oggetto di atti di autonomia privata»[3].

Questo ultimo carattere, inserito nel codice civile dal 21 aprile 1942 (data di sua entrata in vigore) ha introdotto una conformazione generale delle aree cimiteriali e dei relativi diritti, sottratti alla disponibilità dei privati e oggetto di “concessioni traslative” da parte dell’ente titolare, sicché la cessione di un diritto al sepolcro (o tumulazione), inteso tanto come diritto primario di sepolcro quanto come diritto sul manufatto, va configurata come voltura della relativa concessione demaniale, sottoposta al requisito di efficacia della autorizzazione del concedente Comune (non, dunque, una cessione di proprietà del privato concessionario)[4].

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Negoziabilità del sepolcro cimiteriale

Negoziabilità del sepolcro cimiteriale

La natura della concessione cimiteriale

La concessione cimiteriale è un atto amministrativo con il quale la P.A. concede ad un terzo nuove posizioni giuridiche attive (c.d. atto ampliativo della sfera giuridica del destinatario)[1] che si distingue dall’autorizzazione che si limita (quest’ultima) a rimuovere un limite all’esercizio di diritti, poteri e facoltà preesistenti, differenziandosi alla radice del diritto proprio per il conferimento di nuovi diritti e potestà di cui la P.A. è titolare (per questi primi motivi non si potrebbe parlare di acquisto di un titolo di proprietà, peraltro il bene è demaniale, ex comma 2 dell’art. 824 c.c., di conseguenza inalienabili, ai sensi dell’art. 823 c.c.)[2] ma che non intende esercitare direttamente (pur mantenendone intestato il potere e la titolarità) ammettendo il soggetto «al godimento di beni della vita riservati ai pubblici poteri, non suscettibili di formare oggetto di atti di autonomia privata»[3].

Questo ultimo carattere, inserito nel codice civile dal 21 aprile 1942 (data di sua entrata in vigore) ha introdotto una conformazione generale delle aree cimiteriali e dei relativi diritti, sottratti alla disponibilità dei privati e oggetto di “concessioni traslative” da parte dell’ente titolare, sicché la cessione di un diritto al sepolcro (o tumulazione), inteso tanto come diritto primario di sepolcro quanto come diritto sul manufatto, va configurata come voltura della relativa concessione demaniale, sottoposta al requisito di efficacia della autorizzazione del concedente Comune (non, dunque, una cessione di proprietà del privato concessionario)[4].

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La questione da affrontare in questa analisi giuridica concerne la possibilità (o meno) di transare un debito tributario con l’ente locale (ad es. ICI/IMU), ovvero il potere della P.A. di ridurre l’accertamento del mancato pagamento di un tributo locale su un’area edificabile (in assenza della realizzazione dell’intervento), pena la perdita dell’entrata, specie se il bene è oggetto di procedura fallimentare.

L’ICI/IMU costituiscono, infatti, un’entrata di natura tributaria, a cui deve riconoscersi natura tributaria all’obbligazione avente ad oggetto le somme dovute in ragione del detto tributo, nonché all’obbligazione relativa agli interessi maturati sulle medesime somme, attesa la natura accessoria di detta obbligazione rispetto a quella principale[1].

Va premesso, che un basso grado di efficienza dell’attività di contrasto all’evasione tributaria nelle fasi di accertamento e di riscossione è sintomo di una criticità che può compromettere gli equilibri di bilancio, e, allo stesso tempo, dimostra l’incapacità di assolvere un compito fondamentale che appartiene alla P.A.: la riscossione delle proprie entrate.

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L’indisponibilità (alla transazione) dell’obbligazione tributaria salvo il ricorso agli strumenti deflattivi previsti dalla legge

L’indisponibilità (alla transazione) dell’obbligazione tributaria salvo il ricorso agli strumenti deflattivi previsti dalla legge

La questione da affrontare in questa analisi giuridica concerne la possibilità (o meno) di transare un debito tributario con l’ente locale (ad es. ICI/IMU), ovvero il potere della P.A. di ridurre l’accertamento del mancato pagamento di un tributo locale su un’area edificabile (in assenza della realizzazione dell’intervento), pena la perdita dell’entrata, specie se il bene è oggetto di procedura fallimentare.

L’ICI/IMU costituiscono, infatti, un’entrata di natura tributaria, a cui deve riconoscersi natura tributaria all’obbligazione avente ad oggetto le somme dovute in ragione del detto tributo, nonché all’obbligazione relativa agli interessi maturati sulle medesime somme, attesa la natura accessoria di detta obbligazione rispetto a quella principale[1].

Va premesso, che un basso grado di efficienza dell’attività di contrasto all’evasione tributaria nelle fasi di accertamento e di riscossione è sintomo di una criticità che può compromettere gli equilibri di bilancio, e, allo stesso tempo, dimostra l’incapacità di assolvere un compito fondamentale che appartiene alla P.A.: la riscossione delle proprie entrate.

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Gli incentivi per le funzioni tecniche sono catalogati nell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016 e attengono a quelle attività aggiuntive che presentano una “particolare complessità” tale da richiedere un quid ulteriore, tipica espressione di quelle prestazioni professionali e specialistiche che esigono un grado di capacità che va oltre all’ordinaria, valutazione rimessa all’Amministrazione e specificatamente al Responsabile del procedimento, individuato nel titolare della competenza: il dirigente, ovvero colui che assume le funzioni dirigenziali negli enti privi della dirigenza o responsabile del servizio[1].

In questo senso, la disciplina si presenta derogatoria rispetto al principio di onnicomprensività della retribuzione, non costituiscono spesa per il personale ai fini della determinazione della capacità assunzionale, secondo la nuova normativa dell’art. 33, comma 2 del d.l. n. 34/2019 (e ss.mm.ii)[2], da considerarsi di stretta interpretazione non suscettibile di estensione analogica, dovendo rientrare in una previsione regolamentare e in presenza di una procedura di gara.

Allo stesso tempo, l’adozione del regolamento risulta una condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo[3], giacché – nella sistematicità della legge – il regolamento è la fonte destinata ad individuare le modalità ed i criteri della ripartizione, oltre alla percentuale, che comunque non può superare il tetto massimo fissato dalla legge[4].

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Gli incentivi per funzioni tecniche tra affidamenti diretti informali e comparazioni formali, cercando una nozione compatibile di “gara”

Gli incentivi per funzioni tecniche tra affidamenti diretti informali e comparazioni formali, cercando una nozione compatibile di “gara”

Gli incentivi per le funzioni tecniche sono catalogati nell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016 e attengono a quelle attività aggiuntive che presentano una “particolare complessità” tale da richiedere un quid ulteriore, tipica espressione di quelle prestazioni professionali e specialistiche che esigono un grado di capacità che va oltre all’ordinaria, valutazione rimessa all’Amministrazione e specificatamente al Responsabile del procedimento, individuato nel titolare della competenza: il dirigente, ovvero colui che assume le funzioni dirigenziali negli enti privi della dirigenza o responsabile del servizio[1].

In questo senso, la disciplina si presenta derogatoria rispetto al principio di onnicomprensività della retribuzione, non costituiscono spesa per il personale ai fini della determinazione della capacità assunzionale, secondo la nuova normativa dell’art. 33, comma 2 del d.l. n. 34/2019 (e ss.mm.ii)[2], da considerarsi di stretta interpretazione non suscettibile di estensione analogica, dovendo rientrare in una previsione regolamentare e in presenza di una procedura di gara.

Allo stesso tempo, l’adozione del regolamento risulta una condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo[3], giacché – nella sistematicità della legge – il regolamento è la fonte destinata ad individuare le modalità ed i criteri della ripartizione, oltre alla percentuale, che comunque non può superare il tetto massimo fissato dalla legge[4].

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Con la sentenza n. 40 del 16 settembre 2020 il T.A.R. Valle D’Aosta interviene sulla distanza delle sale da gioco lecito rispetto ai luoghi “sensibili”, legittimando la revoca in autotutela della licenza, affrontando altresì il rapporto tra la disciplina nazionale e le potestà regionali.

Giova rammentare che è stata approvata il 10 settembre 2013 una risoluzione del Parlamento europeo nella quale si affermava la legittimità degli interventi degli Stati membri a protezione dei giocatori, anche se tali interventi dovessero comprimere alcuni principi cardine dell’ordinamento comunitario, quali ad esempio, la libertà di stabilimento e la libera prestazione dei servizi, rilevando che il gioco d’azzardo non è un’attività economica ordinaria, dati i suoi possibili effetti negativi per la salute (riferiti ai livelli essenziali di assistenza (LEA) per la cura e riabilitazione rivolte alle persone affette da “ludopatia”) e a livello sociale, quali il gioco compulsivo (le cui conseguenze e i cui costi sono difficili da stimare), la criminalità organizzata, il riciclaggio di denaro e la manipolazione degli incontri sportivi, con la conseguenza che sono possibili interventi “interni” ai singoli Stati per contrastare gli effetti negativi e la lotta alla criminalità connessa alla diffusione del gioco d’azzardo e del fenomeno delle frodi[1].

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Sale da gioco, potestà regionale e provvedimenti d’ufficio inibitori

Sale da gioco, potestà regionale e provvedimenti d’ufficio inibitori

Con la sentenza n. 40 del 16 settembre 2020 il T.A.R. Valle D’Aosta interviene sulla distanza delle sale da gioco lecito rispetto ai luoghi “sensibili”, legittimando la revoca in autotutela della licenza, affrontando altresì il rapporto tra la disciplina nazionale e le potestà regionali.

Giova rammentare che è stata approvata il 10 settembre 2013 una risoluzione del Parlamento europeo nella quale si affermava la legittimità degli interventi degli Stati membri a protezione dei giocatori, anche se tali interventi dovessero comprimere alcuni principi cardine dell’ordinamento comunitario, quali ad esempio, la libertà di stabilimento e la libera prestazione dei servizi, rilevando che il gioco d’azzardo non è un’attività economica ordinaria, dati i suoi possibili effetti negativi per la salute (riferiti ai livelli essenziali di assistenza (LEA) per la cura e riabilitazione rivolte alle persone affette da “ludopatia”) e a livello sociale, quali il gioco compulsivo (le cui conseguenze e i cui costi sono difficili da stimare), la criminalità organizzata, il riciclaggio di denaro e la manipolazione degli incontri sportivi, con la conseguenza che sono possibili interventi “interni” ai singoli Stati per contrastare gli effetti negativi e la lotta alla criminalità connessa alla diffusione del gioco d’azzardo e del fenomeno delle frodi[1].

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